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10: LA FESTA DI HALLOWEEN

 


Un tacco nero affondò in una pozzanghera, una delle tante, sollevando appena l’acqua stagnante. L’impronta si dissolse subito, inghiottita dal riflesso delle luci che filtravano tra i rami spogli. La gamba nuda avanzava con passo sicuro, slanciata, seguita dalla gemella. La stretta minigonna nera ondeggiava appena, toccata dalla brezza autunnale.
La camicia rossa si distendeva e contraeva adeguandosi al movimento del corpo corpo. Il caschetto  era perfetto, immobile, scolpito come un blocco di marmo intinto nella vernice nera.
La strada si apriva su un viale più grande, illuminato solo a tratti dai lampioni. Di fronte si ergeva Palazzo Barbier.
Quasi, i tacchi scivolarono sui larghi gradini umidi per la pioggia recente. Il marmo, un tempo levigato, presentava sottili crepe e leggere irregolarità che trattenevano pozzanghere scure. Ai lati della scalinata, due vasi squadrati ospitavano cespugli rigonfi d’acqua.
Il portone, massiccio e imponente, dominava la cima della scalinata. Le sue doppie ante di legno scuro necessitavano un restauro, ma conservavano l’antico fascino. Due colonne scanalate lo fiancheggiavano, sostenendo un piccolo frontone spoglio che accentuava la rigidità dell’architettura.
Più in alto, la facciata si innalzava seguendo un rigoroso ordine geometrico. Le finestre del primo piano, alte e strette, erano incorniciate da modanature sottili. Dietro i vetri, il bagliore tremolante della festa filtrava tra le tende pesanti, proiettando ombre sfocate sulle pareti interne.
Al secondo piano e al terzo piano, i balconi sporgevano leggermente, sostenuti da mensole in pietra. Le ringhiere in ferro battuto presentavano motivi sinuosi e intrecciati.
Il tetto mansardato dominava la struttura, ricoperto da ardesia blu scuro che rifletteva appena la luce della luna. Tre abbaini con piccoli timpani spuntavano dalla superficie inclinata, come occhi fissi sulla strada sottostante.

All’ingresso imponente uomo di colore accolse la donna e si prese cura del suo ombrello.
Una volta dentro, fece un cenno divertito a una figura vestita da ornitorinco punk che si aggirava tra la folla con movenze goffe. Eccola, l’ennesima persona vestita da Delilah Mercier, pensò la vera Delilah Mercier, lusingata dall'ennesimo omaggio e al contempo annoiata dal conformismo imperante.
L’ospitata al Valquindre Late Show l’aveva trasformata in una star. Non che la cosa la sorprendesse. Era favolosa. Bellissima, ironica, affascinante, arguta. Effettivamente, da chi altro potevano vestirsi? Wonder Woman? Ma non diciamo sciocchezze. A volte si rammaricava di essere sé stessa, perché ciò le precludeva il privilegio di poter godere della propria compagnia.
Si ricompose. Era alla festa già da mezz’ora e non aveva fatto altro che gloriarsi. C'era una cosa che doveva fare; non era certo lì per Halloween, festa che peraltro l'annoiava terribilmente. Eppure, sapeva che sarebbe rimasta bloccata lì per un bel po’. Il terzo piano, quello delle camere da letto, dove presumibilmente si trovavano le sue scarpe, si era trasformato in una sorta di bordello.
Non poteva certo irrompere in una stanza e interrompere un’orgia con tredici persone. «Anche se...» No, no, la visione dell'assessore Brioski (che aveva visto aggirarsi per il palazzo) nudo e arrapato, la fece desistere.
Si infilò nella prima sala che dava sull’atrio. Era un ampio salone decadente, esagerato, volutamente grottesco. Il soffitto, illuminato a intermittenza da luci stroboscopiche blu, era interamente ricoperto da un affresco. Non l’Ultima Cena, bensì L’Ultimo Pranzo. Al centro, Gesù sedeva circondato da soli tre discepoli e altrettante donne misteriose in abiti succinti. Sul tavolo, una coppa ricolma di insalata e la testa di un cinghiale.
La sala era gremita. Il pavimento, bianco a pois neri, strideva sotto le suole delle scarpe del gregge di uomini e donne danzanti, avvolti in un sudario di luci e fumo di sigarette, sigari e pipe. Almeno un terzo dei presenti era composto da sue copie.
Faceva caldo, quasi non si respirava, a maggior ragione con un grossa testa di ornitorinco in lattice infilata in testa. Aveva scelto quel travestimento per passare inosservata, ma a quel punto era del tutto superfluo: si sarebbe mimetizzata tra le decine di Delilah Mercier.
Il bagno, fortunatamente, non era affollato come temeva. Si cambiò in fretta e ne approfittò per sciacquarsi le mani.
Girò la manopola d’ottone a forma di rospo del rubinetto, sperando fosse quella dell’acqua calda. Non ricordava mai quale fosse la calda e quale la fredda. E infatti si sbagliò anche quella volta. Accanto a lei, un’ennesima sosia era intenta a sistemarsi la parrucca. Sembrava piuttosto giovane e, a differenza di tutte le altre, era di colore. Un dettaglio originale, almeno, pensò Delilah.
C’era qualcosa di familiare nel suo viso, e a quanto pare anche lei era incuriosita, la vedeva lanciarle rapide occhiate. «Daphne?» chiese Delilah.
La ragazza si drizzò sorpresa. Conosceva quella voce. Era inconfondibile.
«Non sarai mica Delilah?»
«E chi non lo è?» rispose, coccolata dal getto finalmente caldo del rubinetto. «Ah sì, io sono l’originale, se è quello che intendi.»
Daphne l’abbracciò di slancio. Delilah rimase rigida, imbarazzata da quel tipo di contatto.
«Che ci fai qui? Io, alla tua età, alle nove ero già a letto.»
«Oh, non fare la bacchettona, non sono mica una bambina.»
«Io, quando ero bambina, alle sette ero già a letto.»
Daphne sospirò, divertita. Chissà cosa pensava Delilah del suo travestimento, ci aveva messo tanto impegno nel cucirlo e nell’adattarlo alle forme del suo corpo. Che delusione vedere tutti quegli impostori vestiti allo stesso modo; lei sì, invece, che era una vera ammiratrice.
«Daphne, ti sei persa?» gridò una voce squillante dalla porta.
Una ragazza vestita da Barbie pescatrice si era affacciata nel bagno.
«I miei amici mi reclamano, ci si vede, Delilah.»
Daphne si congedò con un tono evidentemente deluso. Sarebbe rimasta lì a parlare per ore.

Delilah vagava per il palazzo, pettinando la cresta alla Johnny Rotten dell’ornitorinco con aria pensierosa.
Di tanto in tanto dava una sbirciata al terzo piano. Ma quello, sfortunatamente per lei, assomigliava sempre più a un quartiere di Sodoma in rapido popolamento.
Per scrupolo, controllò anche altrove nei piani inferiori, ma delle sue adorate scarpe non c’era traccia. Non erano dietro la porta della cucina, né in un vecchio armadio in rovere vicino alla lavanderia. Ecco, la lavanderia? Che ne sapeva, magari Madame Barbierova era stata così premurosa da lavargliele. Oddio, e se avesse usato i prodotti sbagliati? Delilah rabbrividì. In realtà, era più probabile le avesse lanciate fuori dalla finestra o spaccate in testa a suo marito, ma non voleva nemmeno pensarci.

La biblioteca era gremita di libri, scaffali che salivano fino al soffitto, legno scuro ovunque. Le pareti erano interamente ricoperte da volumi di ogni epoca, anche se la maggior parte erano agiografie di George Best. L’odore di carta antica e cuoio si mescolava a quello del brandy, lasciato evaporare in bicchieri abbandonati sui tavolini.
In un angolo del soffitto, riposava a testa in giù un pipistrello. Uno di quelli col muso puccioso, che Delilah amava tanto. Allungò il braccio e gli sfiorò il naso umido con la mano.
«Ahi!» Il pipistrello la morse. Offesa, abbandonò la biblioteca.

Era ora appoggiata contro una parete della sala da ballo, sorseggiando l’ennesimo calice di vino della serata, ancora completamente lucida. Ahimè, aveva cenato, pasta alle vongole da Krakko, e a lei bastava un solo boccone di carboidrati o vitamine per dire addio a ogni velleità di ubriacatura. E cosa c’è di peggio di essere l’unica persona sobria in mezzo a un’orda di ubriachi? La tortura della Vergine di Ferro, forse, ma Delilah non ne era affatto convinta.
Non sapeva che droghe avessero assunto le persone là dentro. Ne era curiosa, effettivamente.
Sul parquet ormai sudicio, la folla strisciava, i corpi passavano uno sopra l’altro al tempo di un valzer rallentato suonato da un’orchestra di lupi mannari. (Travestimenti, si intende.)
Fiutando la sua curiosità, un clown assassino le offrì una sequela di droghe, una più invitante dell’altra, che Delilah fu costretta a declinare o non avrebbe mai trovato le sue scarpe.
Un vampiro judoka le sussurrò all’orecchio parole sconce, mentre un frate coi capezzoli in bella vista si meritò uno schiaffo in faccia dopo un palpeggio oltraggioso. Gliel’avrebbe fatta pagare, eccome se gliel’avrebbe fatta pagare. Ma più avanti.
Dentro quella sfilata di personaggi rivoltanti, divertenti, affascinanti, osceni non si vedeva il padrone di casa, il Signor Barbier. Eppure doveva essere lì. Chissà sotto quale costume si nascondeva. L’idraulico con i denti a sciabola? Il serial killer con la pettorina dell’UNICEF?
O magari Cappuccetto Rosso, col cappuccio ambiguamente appuntito e un rosso molto, molto sbiadito?
Magari era al terzo piano, impegnato in un’orgia nella stessa stanza e nello stesso letto dove pochi giorni prima lui e Delilah avevano fatto l’amore. Poi, sua moglie, Madame Barbierova, che sarebbe dovuta essere all’estero, era rientrata all’improvviso, e Delilah aveva dovuto sgattaiolare fuori dalla finestra scalza, scivolando giù aggrappata al tubo pluviale e abbandonando lì le sue scarpe.
Lei lo aveva scoperto? Delilah ne dubitava, o difficilmente ci sarebbe stata quella festa. Delilah ne ignorava il volto, peraltro. Forse l’aveva incrociata. forse si erano persino scambiate un sorriso. Forse, ironia della sorte, Madame Barbierova era una di quelle vestite in camicia rossa e caschetto corvino.
Delilah cominciava ad avere fame, maledetta cucina gourmet; sete, il vino le aveva seccato la gola; sonno, aveva sempre sonno; mal di testa, dannato walzer; mal di pancia, maledetta cucina gourmet; mal di schiena, aveva sempre mal di schiena; mal di piedi, cari tacchi alti. Non poteva restare lì a lungo, il suo fisico non avrebbe retto. Doveva entrare in quella camera da letto, e se per farlo occorreva partecipare a un'orgia... beh, era anche un po' arrapata. D'altronde le regole non scritte del terzo piano recitavano quello. Ma non si sarebbe buttata in un'orgia a caso, no, sarebbe stata lei la direttrice del casting oltre che l'attrice protagonista. Una fantasia l'aveva sempre stuzzicata, un sogno erotico che sembra essere destinato a rimanere tale, una curiosità quasi scientifica. Com'era fare sesso con lei? Non lo avrebbe scoperto allora, né mai, ma quella notte poteva sperimentare qualcosa di vagamente simile. Squadrò tutte le sue sosia ed elesse quelle più fedeli, almeno tra quelle che avevano occhi consapevoli di trovarsi ancora sulla Terra e niente macchie di vomito sulla camicia. Afferrò le loro mani e le trascinò nella camera da letto.

La porta si chiuse dietro Delilah e le sue sosia con un tonfo sordo mettendo fine ai lamenti delle persone in fila che erano state superate impunemente.
Il letto, che già conosceva, era un regno in cui vigeva l’anarchia: lenzuola bianche, coperte ammucchiate e macchiate di sudore e di sperma, cuscini sparsi, piume d’oca che svolazzavano, corde di seta utilizzate per legare e dominare pendevano dal baldacchino
Il pavimento, coperto da un tappeto che aveva visto giorni migliori, era disseminato di calze strappate, camicie con bottoni mancanti e mutandine abbandonate. Un paio di tacchi a spillo giaceva rovesciato, uno con il tacco spezzato. Delilah esaminò le scarpe angosciata prima di scoprire che, grazie a Dio, erano di un numero diverso dal suo. Sui mobili giacevano bottiglie di vino vuote e bicchieri sporchi di rossetto, siringhe e mozziconi, mentre alcune sigarette erano rimaste pericolosamente accese.
L'aria era impregnata dell'odore di corpi, tabacco e sesso. Le tende erano state tirate indietro, lasciando che la luce della luna di Halloween facesse capolino.
Delilah si voltò verso le sue copie, donne che avevano scelto di vestirsi come lei, di incarnare il suo fascino e la sua ironia. Erano lì, in piedi, pronte a esplorare confini che non avevano mai osato varcare.
Delilah-2 si avvicinò e iniziò a spogliare Delilah. La gonna scivolò lungo le gambe, rivelando la pelle chiara e liscia delle cosce e cadde a terra come un petalo nero. E le mutandine fecero lo stesso. Delilah-Omega la imitò, slacciando la camicia rossa con deliberata lentezza, lasciando che ogni bottone slacciato rivelasse il corpo come un romanzo disvela nel corso delle pagine i suoi intrighi . La camicia scivolò via, lasciando i seni sodi esposti, con i capezzoli che si indurivano di desiderio. Il torso di Delilah era morbido e perfetto, con la vita sottile che si allargava in fianchi invitanti, mentre la schiena scendeva seguendo una linea perfetta verso le natiche sode.
Delilah-Z le accarezzava i capelli neri e setosi, desiderosa delle labbra che incorniciavano. Delilah-Velvet completò la svestizione inginocchiandosi davanti a lei e sfilandole bramosa le scarpe.
Una volta scalza, i piedi di Delilah si rivelarono in tutta la loro bellezza. Erano affusolati e proporzionati, con unghie dipinte di un rosso brillante in seducente contrasto con la pelle chiara.
Delilah-Velvet, senza esitazione, afferrò uno dei piedi di Delilah, portandolo alla bocca e annusandone il profumo. Iniziò a leccare, la sua lingua seguiva la curva del piede, esplorando ogni dito e ogni piega con devozione.
Le mani di Delilah-Z e Delilah-Robot esploravano ogni centimetro del corpo nudo di Delilah, ogni tocco era un omaggio alla bellezza che si ergeva davanti a loro. Delilah era la loro dea, nuda non solo di vestiti, ma anche di inibizioni. Prese l'iniziativa, strappando la camicia di Delilah-2 e slacciandole delicatamente il reggiseno. Delilah-2 rispose con un gemito soffocato, mentre il suo corpo che tremava per l'eccitazione.
Tutte le camicie, tutti i reggiseni erano a terra, lasciando le spalle esposte, i seni che si scontravano con una forza che andava oltre il semplice sfiorarsi. Delilah sentì il calore dei corpi che si univano, le mani che esploravano con voracità.
La stanza si riempì di gemiti e respiri affannosi. Le sosia si unirono in un abbraccio collettivo, un groviglio di gambe, braccia, e desideri sfrenati. Delilah guidò Delilah-Omega sul letto, il suo corpo la dominava, i loro baci si mescolavano, le lingue si esploravano a vicenda con un'urgenza quasi violenta.
Mentre Delilah succhiava con forza i capezzoli di Delilah-Omega, mordendo leggermente, sentendo come si indurivano sotto le sue labbra, Delilah-Robot iniziò a leccare l’altro suo piede mordicchiando le dita, esplorando ogni centimetro con una passione avida.
Delilah-Velvet si unì, le sue mani scesero lungo il corpo di Delilah, trovando la sua fica, penetrandola con dita decise, accarezzandola con una conoscenza che solo chi conosceva intimamente il proprio corpo poteva avere. Delilah gemette, il piacere cresceva come un'onda inarrestabile, il suo corpo rispondeva a ogni stimolo con cruda intensità.
Il gioco si fece più audace, le posizioni cambiavano con una brutalità che solo il desiderio più puro poteva giustificare. Delilah si trovò sotto, sopra, accanto, le sensazioni che si mescolavano in un'orgia di piacere, ogni movimento un nuovo capitolo di una storia erotica dove lei era sia l'autrice che la protagonista, dominatrice e sottomessa allo stesso tempo.
E mentre l'orgia raggiungeva il suo apice, con corpi che si contorcevano in estasi, Delilah si perse completamente, trovando in quel caos di piacere una comunione con sé stessa e col mondo che non aveva mai immaginato possibile.

Le mani si muovevano tra pelle sudata e lenzuola sgualcite, raccogliendo abiti dispersi in giro senza troppa cura. Camicia rossa, minigonna nera, calze accartocciate. Qualcuna si passò un dito di rossetto sulle labbra, un’altra si specchiò in uno degli armadi spalancati.
Ma il languore durò poco.
«Brave ragazze, battete il cinque!» esclamò Delilah conclusa l’orgia «ora aiutatemi a trovare le scarpe»
«No, non quelle che indossavo quando sono entrata, Delilah-Robot.»
«Non mi chiamo Delilah-Robot» protestò Akemi, brandendo le scarpe.
Fu l’inizio della devastazione.
Frugarono ovunque. Aprirono cassetti e li rovesciarono senza pietà, strapparono coperte e federe dai letti, gettarono a terra scatole e cuscini, svuotarono comodini e bauli.
La stanza si riempì del fruscio caotico di tessuti lanciati in aria, del tonfo di oggetti che rotolavano sul pavimento sommerso. Lenzuola annodate, reggiseni sparsi, vestiti stropicciati, altre piume che volavano come residui di un’esplosione.
Le ragazze cercavano in modo indefesso, ignorando i colpi sulla porta della gente in fila fuori, trepidante per il suo turno.
«Aprite, cazzo!»
Delilah sospirò, passandosi una mano tra i capelli arruffati. «Chiudi a chiave, Delilah-Z, o stanotte finisce in rissa.» La ragazza obbedì all’istante, senza nemmeno chiedersi come o perché avesse capito che si riferisse a lei.
La stanza era ormai completamente a soqquadro, molto più di quanto non fosse al loro ingresso.
Il piacere dell’orgasmo si stava lentamente tramutando in irritazione profonda. Il pavimento era ormai un tappeto di vestiti, calze arrotolate, biancheria e scarpe spaiate. Ma non le sue. E non c’era più un centimetro di superficie visibile su cui muoversi.
Delilah si rannicchiò e cominciò a piangere disperata, ripensando ai bei ricordi che la legavano a quelle scarpe. Ricordava il profumo del negozio, il sorriso e la pazienza della commessa che l'aveva servita, i complimenti dell'anziano marpione una volta indossate, e anche quelli prima, a dire il vero. Ricordava il momento in cui le aveva riposte nella sua scarpiera, affianco a decine di altri modelli praticamente indistinguibili per chiunque ma non per lei, che ne riconosceva l'odore, le pieghe della pelle, le impronte del suo piede sulla soletta, il grado di smussatura della punta. E ricordava benissimo, in modo indelebile i 742 lunari che aveva speso. Rassegnata, abbandonò la stanza senza nemmeno badare agli insulti che le piovevano addosso. Aveva perso. Era il momento di tornare a casa. Ma proprio mentre si avviava notò una rampa di scale che portava a un piano superiore. Non l’aveva mai vista prima. E se conducesse alla sontuosa cabina armadio di Madame Barbierova in cui senza dubbio erano conservate le sue scarpe?
Sopra il silenzio era quasi irreale dopo il caos dei piani inferiori. Nessuna calca.
Non la notò subito. Prima il suo sguardo cadde sul pavimento, su un tappeto persiano imponente, disteso sul parquet scuro. Era di un rosso cupo, profondo, percorso da intricati arabeschi dorati e blu notte, come vene sotterranee che scorrevano nel tessuto. Nel centro, un grande medaglione floreale,  attorno al quale si sviluppavano motivi geometrici dal sapore esoterico. Lo seguì con lo sguardo, lentamente, fino al bordo. L’orlo era fitto di ricami, un labirinto di curve e intrecci simmetrici, che sembravano ripetersi all’infinito. E lì, proprio sul margine del tappeto, poggiavano due piedi che calzavano scarpe femminili.  Col tacco, décolleté, nere, come le sue.
Risalì lentamente lungo la figura. Gambe lunghe e toniche, gonna nera sopra il ginocchio, camicia color rubino sagomata su forme perfette. Viso delicato, occhi di colore indefinito ma intenso. Splendido caschetto nero.
Delilah sgranò gli occhi. Un’altra sosia. Un’altra donna che aveva scelto di vestirsi come lei, ispirata dalla sua magnifica prova al Late Show. Ma questa era diversa. Lei era la migliore di tutte. Incredibilmente somigliante all’originale. Era quasi come guardarsi allo specchio.
Si avvicinò, strabiliata, desiderosa di complimentarsi. Allungò il braccio per stringerle la mano. La sosia replicò il gesto. Le loro dita si incrociarono. Una stretta decisa.
«Favolosa, semplicemente favolAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!» Un dolore lancinante attraversò il suo corpo.



Lo specchio era ovale, con una cornice in legno dorato finemente intagliata.
Tralci vegetali si rincorrevano lungo il bordo, alternandosi a piccoli motivi floreali e volute spesse che creavano un senso di movimento quasi liquido. Ai lati, due figure femminili stilizzate, appena accennate, si fondevano con l’intaglio, come se emergessero dal legno stesso.
Era uno specchio da parete, pensato per essere appeso all’altezza del volto, e invece era poggiato a terra, inclinato leggermente all’indietro. Non per caso, non per dimenticanza: la posizione era deliberata.
Un cigolio lento ruppe il silenzio. Una porta si aprì, seguita dal suono regolare di passi. Tacchi sul legno.
Nel riflesso, comparvero due gambe femminili. Indossavano stivali alti, lucidi, che avvolgevano il polpaccio fino a poco sotto il ginocchio. Si fermarono.
Poi, con un movimento deciso, gli stivali vennero scalzati.
Nudi, comparvero i piedi. Bellissimi. Né troppo lunghi, né troppo corti: proporzionati, affusolati, dalla pelle liscia e morbida. Le dita erano lunghe il giusto, leggermente paffute, con unghie curate e smalto chiaro, lucido. Ogni curva, ogni linea, sembrava disegnata con intenzione.
«Specchio, specchio delle mie brame, chi ha i piedi più belli di Valquindre?» chiese una voce femminile, vellutata, con un accento appena percettibile dell’Est, e una nota di compiacimento a malapena celata.
«C’è ancora da lavorare sulla rima...» rispose lo specchio, con voce profonda, maschile, dalle inflessioni lente e solenni. «Ma comunque, torniamo a noi... i vostri piedi, Miss Barbierova, sono semplicemente favolosi. Eppure c’è chi li batte. Quelli di Delilah Mercier sono ancora superiori.»
«E da dove salta fuori 'sta troia?» domandò la donna, tra l’indignato e lo sbigottito.
«Un bug del sistema.»
«Cosa diavolo significa?!» sbraitò Miss Barbierova, stringendo i pugni.
«Non risultava nel database, nonostante risieda in città da anni.»
«Stupido!» esclamò, lanciando verso lo specchio un fazzoletto.
Il tessuto si aprì in volo e, per effetto della sua leggerezza e dell’aria calda che saliva dal pavimento, svolazzò per un istante restando sospeso, senza mai raggiungere il bersaglio.
Questo bastò a montare ancor di più la sua rabbia.
«Maledetta Delilah Mercier!» ringhiò. «La pagherai. La pagherai cara!»


«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!»
Effettivamente, la stava pagando. Il dolore era atroce e insensato.
Un'ondata elettrica attraversava il corpo di Delilah, brutale e continua, partiva dalla mano stretta in quella della sosia e si irradiava ovunque: muscoli che si tendevano, denti che stridevano, occhi che lacrimavano da soli.
«AAAAAH… mi stai facendo male, stronza! Fermati! AAAAAAAAAAAAARGH!! Cosa vuoi da me?!»
La sosia la fissava con uno sguardo vuoto, quasi pacato. Le dita affusolate che stringevano la sua mano non tremavano affatto.
«Scopi davvero bene, Delilah. Quella sera stavo quasi cambiando idea. Ma no… non basta. Meriti una punizione.»
«AAAAAAAAH!… Ma di che diavolo stai parlando?! Quale sera?! Lasciami la mano! Presentati e lascia la mia fottuta mano!!»
«Ma come, non ti ricordi?» sussurrò la donna con voce quieta. «Abbiamo fatto l’amore qui, in questa casa. Non con il signor Barbier, no… con me. Non esiste nessun signor Barbier, a dire il vero. E nessuna moglie che è tornata a casa. Nessuna Madame Barbierova. O meglio sì. Esiste. Sono io. Io sono Madame Barbierova.»
Delilah urlava, si contorceva, e nel mezzo di uno strillo spezzato sbottò:
«Ti spieghi di merda!!»
«Sono una maga molto abile» spiegò la sosia — Madame Barbierova. «Posso mutare forma e sedurre chi voglio. Ed è così che sei finita nel mio letto, Delilah.»
«Che combo di poteri del cazzo!» rantolò Delilah, stringendo i denti.
Poi, in mezzo al delirio del dolore, ripensò a quando aveva incontrato il signor Barbier in fila alla posta: era vestito di merda, aveva una R moscia del cazzo… era evidente ci fosse sotto un sortiglegio, come aveva fatto a non capirlo?
La tensione la stava distruggendo. Ogni nervo sembrava incendiato, ogni respiro uno strappo alla carne viva. Il cuore impazzito nel petto, i muscoli rigidi come travi.
Eppure ancora lucida. Maledettamente cosciente.
«BASTAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!! Cosa mi stai facendo?!»
«Ti sto trasferendo una maledizione» rispose Madame Barbierova, senza alzare la voce.
«Perché?!»
Delilah sembrava sul punto di spezzarsi.
«Perché?! Mi chiedi perché?!»
Gli occhi di Madame Barbierova si accesero. «Per l’affronto. Perché, a quanto pare, i tuoi piedi… sono più belli dei miei. Così  ha sentenziato il mio specchio feticista.»
«Ah beh… comprensibile» ironizzò Delilah tra un tremito e l’altro, con la voce spezzata dal dolore.
«Il passaggio della maledizione è possibile solo la notte di Halloween» continuò l’altra, con tono implacabile.
«Che originalità…AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!»
L’intensità aumentò.
Delilah si sentì svuotare dall’interno. Era come se qualcosa le stesse scavando l’anima, frugando nelle ossa. Le gambe non la reggevano più. Il suo corpo era un ammasso nervoso che vibrava e si contraeva, le lacrime scorrevano senza che potesse fermarle, e la voce si spezzava a ogni grido. Una parte di sé si chiedeva come potesse ancora essere viva.
Poi, all’improvviso, Madame Barbierova le lasciò la mano.
Delilah cadde a terra con un tonfo sordo. Le braccia si afflosciarono lungo i fianchi, la guancia toccò il legno freddo. Il mondo girava.
«E in cosa consisterebbe questa maledizione?» chiese, con un filo di voce, quasi non fosse lei a parlare.
«Lo scoprirai.»
Poi Delilah svenne.

Un’ape ronzava golosa attorno a un panettone di cemento. Non ce n’è di polline lì! Non ce n’è! Vattene, trova un fiore o diventerai lo zimbello dell’arnia! Vai via!
Delilah!
Via!
Delilah, sveglia!
Una voce ovattata.
Una sberla in faccia meno ovattata.
L’ape sembrava aver capito, si allontava dal panettone, ma nel frattempo scompariva, confondendosi col buio.
«Delilah! Sveglia!»
SBAM!
Delilah strizzò gli occhi, la bocca appena aperta, confusa, con le labbra impastate e un sapore spiacevole.
Una figura sfocata, in controluce. Una faccia scura, familiare, con un taglio di capelli divino, il suo.
«Daphne…?»
«Sono io, sì. Che diavolo è successo? Ti ho sentita urlare. Quando ti ho trovata eri svenuta sul pavimento, rigida come un cadavere.»
Delilah si tirò su appena, con fatica. Si sentiva come se l’avesse investita un treno. Tutto le faceva male. Dalle ginocchia alle scapole, passando per l’anima.
«Vorrei capirlo anch’io» disse con voce roca. «So solo che ho male dappertutto.»
Daphne la osservò, preoccupata.
«Delilah, hai una pessima cera. Dovresti tornare a casa.»
Delilah si immobilizzò, scandalizzata. Pessima cera?! Lei?! Cercò uno specchio invisibile nell’aria, ma crollò su se stessa.
Daphne le prese il braccio con delicatezza e la aiutò ad alzarsi.
Scendendo le scale e attraversando i piani, il palazzo si rivelava per quello che era diventato: un cimitero di morti viventi.
Qualcuno giaceva per terra probabilmente in overdose. Altri dormivano nudi, uno sopra l’altro. Un altro che dormiva beato con la faccia nel proprio vomito. Una ragazza cercava il rossetto nel vomito di una Delilah Mercier.
Nessuno badava a loro.
Una volta fuori, l’aria gelida della notte le colpì in faccia come una scarica elettrica. Scusa Delilah, similitudine indelicata. Daphne la accompagnò alla macchina, una spider rossa parcheggiata storta sul marciapiede.
«Aspetta, siediti» disse Daphne, e una volta che Delilah fu sistemata al posto del passeggero, aprì lo zaino e frugò dentro.
«Una tua sosia mi ha dato queste. Ha detto che erano per te.»
Le porse un paio di scarpe nere.
Bellissime.
Lucide, eleganti, con una linea perfetta e il tacco alto.
Delilah le guardò. E per la prima volta da ore, sorrise.

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  Il mercato di Valquindre era quel che di più simile ci fosse all’inferno. Un miscuglio di odori pungenti: pesce rancido, spezie di dubbia provenienza, sudore umano. Le voci dei venditori si sovrapponevano in un’orgia di richiami sguaiati, mentre la folla si muoveva in un’onda confusa di gomiti e piedi pestati. «Pesce fresco!!» urlava un uomo robusto, con la faccia rossa come il suo grembiule insanguinato. «Pisci menu friscu, ma a prezz' competitivi!» strillò poco più in là un altro venditore, mentre si attorcigliava i folti baffi con le mani impregnate di viscere di tonno. Delilah Mercier avanzava nel caos con la solennità di una regina in esilio, i lineamenti tesi in un’espressione di puro disgusto. Odiare era dire poco: detestava quel posto con ogni fibra del suo essere. Il frastuono, la calca, il puzzo… e soprattutto la gente, troppa, sempre troppa. Eppure, il mercato era di passaggio obbligato per raggiungere la sua meta. Delilah odiava il chiasso. Odiava la calca, l’odore di...

11: LA FORESTA DI FLEUTUS

  Un esserino volava a mezz’aria come un sacchetto trascinato dal vento. La sua pelle era bianchissima, quasi lattiginosa, e contrastava con i capelli corvini, lunghi, lisci e pesanti, che si incollavano alle spalle e alla schiena umida di rugiada. Il vestitino nero, cucito con mille ricami intricati e argentati, sembrava un patchwork di nobili ragnatele, cucito da qualche sartina elfica sotto acido. Lasciava scoperti i piedi nudi, piccoli e perfetti, intirizziti dal freddo. Su quelle estremità bianche come porcellana, e le spalle, lasciate anch’esse nude, la pelle d’oca si abbozzava in minuscoli brividi visibili solo da occhi attenti. Le ali, piccole e fragili ma efficienti sbattevano pigramente, facendola procedere con lentezza. Attorno a lei, la foresta era fitta, altissima, cupa. Gli abeti rossi dominavano, alti e dritti, con tronchi ravvicinati e aghi che oscuravano il cielo. Al loro fianco crescevano faggi scuri, larici contorti, ontani dal tronco gonfio e betulle dal legno c...

08: LATE SHOW

  Gli applausi scroscianti del pubblico coprirono il finale della risposta sagace di Delilah. La nostra si trovava in un piccolo studio televisivo, seduta su una comoda poltrona con le gambe accavallate. Lo studio aveva un’estetica piuttosto kitsch. Dal soffitto pendevano candelabri, troppi, che illuminavano la stanza in modo poco omogeneo. Sul fondo, dietro alla poltrona degli ospiti e  il bancone in legno del conduttore, dominava un grande pannello che ritraeva la sagoma infiorettata dello skyline di Valquindre, illuminata da un’enorme luna piena. Ai lati pendevano delle oscene tende rosse. Eppure l’insieme aveva un che di soavemente macabro qualche modo funzionava. «Abbiamo ospite, stasera, l’investigatrice più sexy di Valquindre!» annunciò Florentin Iorgulescu, un uomo ben vestito dalla pelle pallidissima, le orecchie appuntite e i canini particolarmente pronunciati. «Una delle massime esperte in occulto e fenomeni paranormali, ancora un applauso per Delilah Mercier!» E il...