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11: LA FORESTA DI FLEUTUS

 

Un esserino volava a mezz’aria come un sacchetto trascinato dal vento.
La sua pelle era bianchissima, quasi lattiginosa, e contrastava con i capelli corvini, lunghi, lisci e pesanti, che si incollavano alle spalle e alla schiena umida di rugiada. Il vestitino nero, cucito con mille ricami intricati e argentati, sembrava un patchwork di nobili ragnatele, cucito da qualche sartina elfica sotto acido. Lasciava scoperti i piedi nudi, piccoli e perfetti, intirizziti dal freddo. Su quelle estremità bianche come porcellana, e le spalle, lasciate anch’esse nude, la pelle d’oca si abbozzava in minuscoli brividi visibili solo da occhi attenti. Le ali, piccole e fragili ma efficienti sbattevano pigramente, facendola procedere con lentezza.
Attorno a lei, la foresta era fitta, altissima, cupa. Gli abeti rossi dominavano, alti e dritti, con tronchi ravvicinati e aghi che oscuravano il cielo. Al loro fianco crescevano faggi scuri, larici contorti, ontani dal tronco gonfio e betulle dal legno chiaro. Il sottobosco era umido e ricoperto di felci, muschi e licheni.
Un ruscello dalle acque scure serpeggiava lungo il sentiero, comparendo e scomparendo tra le radici spesse e le rocce affioranti, come se tagliasse la terra di nascosto. Il terreno era terroso, irregolare, coperto di foglie secche e rami spezzati.
Il silenzio era profondo. Poi, una voce femminile, elegante ma acida, lo ruppe: «Morgana! Ti vuoi muovere!»

Delilah si era fermata qualche passo più avanti, mani sui fianchi, con l’espressione di chi ha appena contato fino a dieci per non urlare.
«Ti decidi?» sbuffò, voltandosi.
Morgana fluttuava ancora, con la stessa aria irritata e fremente. La sua testolina era abbassata, lo sguardo duro fisso a terra.
Delilah incrociò le braccia. «Puoi anche smetterla di tenermi il muso, sai? Solo perché ti ho fatto uscire una volta di casa...»
Silenzio. Le ali della fatina tremarono appena.
«Guarda in che bel posto ti ho portata.» fece, indicando gli alberi e il grazioso ruscello. «Contatto con la natura, rigenerazione, armonia con il respiro della Terra… non ti dice niente tutto questo?»
Morgana girò lentamente la testa dall’altra parte. Il broncio si era fatto più marcato.
Delilah rimpianse di non aver invitato Daphne al posto suo.
Si rimise in marcia. Il terreno era morbido, scivoloso. I suoi piedi affondarono nel fango. Gli stivaletti, alti fino alla caviglia, erano stati una buona scelta. Per quanto sfiziosi erano sacrificabili: non erano le sue adorate décolleté col tacco.
Non molti lo sapevano, ma Delilah adorava camminare nella natura. La fatica, il fiato corto, le salite che si alternavano alle discese, le meritate pianure, il silenzio. L’idea della ricompensa — l’arrivo, la vista, la luce che si apre su qualcosa di inatteso e magnifico— era qualcosa che aveva sempre amato.
Anche quel giorno non sapeva cosa l’aspettasse. Ma a differenza di tante volte non era una passeggiata di piacere. Era lì per lavoro, per conto di un certo Mr Busy.
La foresta rientrava nelle sue proprietà.

L’incontro era avvenuto una settimana prima, nel suo studio. Era una sala grande e luminosa. Le pareti erano bianche e Delilah odiava le pareti bianche, con delle eccezioni, che a dire il vero non le venivano in mente, ma ci sono sempre delle eccezioni. Erano spoglie di qualsiasi carattere, tappezzate da quadri di arte contemporanea, tutti pretenziosi e poco ispirati (segno di un pessimo gusto in fatto di arte), alternati a frasi incorniciate : frasi spiritose poco spiritose o frasi motivazionali poco motivanti. Delilah le guardava come si guarda qualcosa di vagamente offensivo.
Mr Busy sembra aver da poco superato la sessantina. Aveva occhiali rettangolari scialbi, capelli castani ben pettinati e vaporosi e una camicia a righe infilata nei pantaloni. Sul polso, un simpatico braccialetto con scritto “Busy is better”.
Parlava tantissimo. Della sua famiglia. Di suo nonno, che aveva fondato la compagnia con visione. Di suo padre, che l’aveva resa grande. Dell’azienda stessa — la Busy Corporation, leader internazionale nella produzione di sistemi di segnalazione di posti occupati. Ascensori, bagni, parcheggi, cabine prova.
Poi venne al punto.
«Vedete, Miss Mercier, le scosse telluriche che sconvolgono la foresta di Fleutus sono evidentemente di natura magica.»
Delilah lo guardò, calma.
«Se sono telluriche saranno evidentemente di natura geologica. E io purtroppo non sono una geologa.»
Mr Busy sorrise, imperterrito. «Magia, Miss Mercier. Ne sono certo.»
«Non ho notizie di terremoti causati da fonti sovrannaturali, Mr Busy.»
«Vi prego di fare almeno un sopralluogo, sono certo cambierete idea.»
«Sarebbe una perdita di tempo.» La verità è che Delilah aveva già prenotato un viaggio per le Galapagos.
«Non sottovalutate ciò che sfugge al metodo scientifico.»
«Sembrerà un paradosso, ma sono una grande sostenitrice del metodo scientifico.»
Mr Busy aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori una pietra.
«Assaggiate questa roccia.»
Delilah sbatté le palpebre.
Era una pietra grigia, di forma irregolare, appena ruvida. Poco più che un banale sasso. Un pezzo di marciapiede.
Delilah la afferrò spazientita e la leccò.
Sapeva sorprendentemente di gianduiotto. Che la magia sappia di gianduiotto? Ne dubitava fortemente.
«Sa di roccia» disse.
«Mi dispiace che siate scettica. Questa, comunque, è la mia proposta.»
Le allungò un foglio.
Delilah strabuzzò gli occhi. Era una cifra a quattro zeri! Osservò il foglio a lungo, arricciando e disfando ossessivamente una ciocca di capelli. Sentiva il fiato di Mr Busy sul collo. Fiato pesante, peraltro. Un altro difetto che si sommava a tutti gli altri.
«Qualche anno fa forse lessi su qualche vecchio libro che la magia potrebbe sapere di gianduiotto» mentì a se stessa.
«Va bene, accetto.»
Mr Busy si illuminò. Fece il giro della scrivania, visibilmente soddisfatto, e già pronto ad accompagnarla fuori. Poi si fermò, come se avesse dimenticato qualcosa.
«Ah, quasi scordavo. C’è un’ultima cosa,» disse, abbassando la voce.
Delilah lo guardò senza troppo entusiasmo.
«C’è un motivo per cui sono certo che non si tratti di un fenomeno geologico.»
Fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste. Poi si sistemò gli occhiali sul naso, serio.
«Io sono un geologo. Ho studiato quella zona. La foresta di Fleutus non poggia su alcuna faglia. Nessuna frattura, nessuna instabilità. Geologicamente parlando, è morta. Immobile da milioni di anni.»
Lasciò cadere un silenzio.
«Quello che accade lì dentro… non ha nulla a che fare con le leggi scientifiche.»

Di scosse, per ora, non ce n’erano state.
E d’altra parte, non era mica pagata per trovare necessariamente qualcosa. Mr Busy voleva un sopralluogo, lei stava facendo un sopralluogo. Punto.
A Delilah la foresta sembrava perfettamente normale. La flora e la fauna rientravano in ciò che ci si poteva aspettare in una zona boschiva di quella latitudine. A un certo punto avevano avvistato uno strano animale con la testa da scoiattolo e il corpo da lucertola, ma non era mica una zoologa. Quell’essere avrà sicuramente avuto un nome. Gli esperti conosceranno perfettamente quella specie e le sue caratteristiche.

E poi aveva invitato Morgana, su consiglio di Busy, che a quanto pareva si era documentato approfonditamente sul suo conto.
A dire il vero non era propriamente stato un invito.
Si può dire che se l’era portata. Trascinata di peso e obbligata con la forza e le minacce fisiche e verbali, a essere più precisi.
Morgana era un essere magico. Chi più di lei era in grado di percepire la magia?
Nemmeno lei, però, aveva segnalato niente.
Certo, era capitato in un paio di occasioni che si agitasse. Si era messa a strattonare con insistenza l’impeccabile camicia cremisi della sua padrona. La prima volta Delilah stava allacciandosi gli stivali.
La seconda volta pure.
Non era abituata alle scarpe con le stringhe. Le trovava volgari.
«Aiutami invece di strattonarmi!» l’aveva sgridata.
Il sentiero proseguì in salita. Il terreno, già scivoloso, si complicava per via delle rocce lisce che spuntavano ovunque come vertebre sporgenti. Il ruscello si era fatto torrente, rumoroso, nervoso, e si frapponeva sempre più spesso tra loro e il sentiero. Delilah avanzava saltando con attenzione da un masso all’altro.
«Sai che detesto i tribunali?» disse, senza voltarsi.
Fece una pausa, rifletté.
«Ho detto tribunali? Mi sono sbagliata. Anche se in effetti sono piuttosto deprimenti. Ma tribunale è una parola bellissima, lunga e solida.
Volevo dire i tatuaggi tribali. Ecco. Quelli sì che li detesto.»
Fece un altro salto, atterrò con precisione su una roccia bagnata.
«Li trovo brutti. E cafoni. Non che sia una grande amante dei tatuaggi in generale. Più che altro… che seccatura. Farsi bucare la pelle, stare lì ore, e poi? Per cosa?
Ho una pelle perfetta, perché dovrei rovinarla?»
Morgana, dietro di lei, si librava appena sopra i sassi, silenziosa.
«E poi detesto il concetto di “significato”. Che dovrebbe significare qualcosa tanto da tatuarselo addosso? E soprattutto, perché?»
La voce di Delilah si faceva un po’ più affaticata. La salita era diventata più insidiosa. Anche lei, che aveva un fiato naturale da maratoneta, cominciava a sentire le gambe pesanti.
«Parlare con te è un incubo. Qualcuno direbbe che sei un’ottima ascoltatrice. In realtà no. Serve qualcuno che ti interrompa. Che fermi i tuoi sproloqui.»
Eppure, riflettendoci bene un disegnino grazioso sul piede non era così una cattiva idea. Sul sinistro, perché le stava più simpatico. Qualcosa di piccolo.
«Che ne dici? Lo so che mi leggi nel pensiero.»
Affatto. Non ottenne risposta, infatti.
«Tipo un teschietto? Nah, troppo didascalico. Però… quanto sarebbe ancora più sensuale il mio piedino.»
Morgana alzò gli occhi al cielo. Lo faceva ogni volta che Delilah parlava dei suoi piedi. Quindi molto spesso.
«Una data, magari… Tipo: 7 febbraio 1744. Una data a caso, ma che incuriosisce»
Quante storie si sarebbe inventata in compagnia di begli uomini e belle donne, eccitati ed eccitate dai suoi piedi divini e anche misteriosi,
Era passata in pochi minuti dal detestare i tatuaggi a decidere di farne uno.
Dietro di lei, stanca dei suoi discorsi vanagloriosi, Morgana cominciò ad ansimare. Un respiro pesante, teatrale, come se anche per lei la salita fosse insopportabile. Delilah si voltò di scatto, irritata.
«Ah, molto spiritosa.» Peraltro non capiva se stesse fingendo di faticare o al contrario, stesse fingendo di fingere di faticare. Cosa significa volare su una salita? Era più faticoso? Equivaleva allo sforzo di sollevarsi, di librarsi in aria ad altezza sempre più alta?
Un’ombra larga e tozza si  proiettò sul terreno interrompendo le sue elucubrazioni.
Apparteneva a un orso bruno, enorme, brutale. Aprì la bocca rivelando i denti aguzzi assetati di sangue. Un ruggito feroce squarciò l’aria.
«Pussa via!» fece Delilah, secca.
L’orso obbedì e scomparve tra gli alberi.

Un boato.
Il terreno tremò.
Delilah perse l’equilibrio e cadde a terra, nel fango, sporcandosi tutta. Il tremore continuò per alcuni secondi, profondo, sordo. Poi si quietò.
Delilah si sollevò su un gomito, il fango le colava lungo il fianco.
«Uh, che spavento,» disse con nonchalance.
Morgana cominciò ad agitare le braccia, indicando con forza il terreno sotto di loro.
«Lo so, lo so!» sbottò Delilah. «È pieno di fango, mi sono zozzata tutta, grazie per la segnalazione.»
Si fermarono un po’ per riprendere fiato, ma soprattutto Delilah ne approfittò per provare a pulirsi, senza successo.
Alla loro destra si alzava una parete rocciosa, alta macchiata di muschio. Massi enormi, staccatisi chissà quando, punteggiavano il terreno. Forse erano crollati la domenica prima, forse secoli prima. Difficile dirlo.
Senz’altro, certificavano che non era un luogo sicuro..
Sull’altro lato, la vista della valle era completamente oscurata dagli alberi: tronchi spessi, nodosi, troppo ravvicinati, e rami intricati che si avvolgevano l’uno nell’altro come le reti dei pescatori.
Sopra di loro, il cielo era grigio scuro, compatto. Le nuvole avevano contorni netti, marcati, si sovrapponevano come strati di lana pesante pronti a disfarsi in pioggia da un momento all’altro.
Sembravano fare a gara per chi fosse più carica d’acqua, chi la più minacciosa.
Accanto a un tronco scheggiato, spuntavano due cartelli di legno scolpito.
Uno indicava verso sinistra: "Rifugio Nocchio – 1h 30 min"
L’altro, rivolto nella direzione opposta, diceva:
"Gola Cerveau– 1h 15 min "
Dalla direzione del rifugio, passò un uomo. Aveva la barba lunga, l’impermeabile blu, e al fianco un cane dal pelo ispido. Camminava con passo atletico, sicuro, senza esitazioni.
«Buongiorno,» disse.
Delilah annuì. «Buongiorno.» Morgana fece ciao ciao con la manina.

Poi, all’improvviso, una nuova scossa.
Più forte.
Più lunga.
Il terreno sobbalzò sotto i piedi.
Delilah perse l’equilibrio e cadde di faccia, dritta nel fango.
Alle sue spalle, chiaramente, sentì Morgana ridere silenziosamente.

Delilah si avvicinò al ruscello, si inginocchiò e pucciò la faccia nell’acqua gelida. Restò così qualche secondo, con il viso immerso fino agli zigomi, poi si sollevò lentamente, sferzata dal freddo ma almeno un po’ meno infangata. I capelli, ancora sporchi di fango su un lato, le si appiccicavano alla fronte.
Si rimisero in marcia. Lungo un tratto di parete rocciosa, notarono alcuni disegni rupestri incisi direttamente nella pietra. Erano scene di terremoti: terreni spaccati, massi che cadevano, gente che correva. Ma, osservandoli meglio, Delilah si accorse che tutte le scene avevano come protagonista lo stesso individuo: un uomo tozzo, dalla testa gigantesca, con un naso sproporzionato persino per quella testa enorme. Indossava una pelliccia, probabilmente di mammut, o forse un cappotto scamosciato di Zara — difficile dirlo con quel livello di stilizzazione, ma la logica e le nozioni storiche facevano propendere per la prima opzione.
Una scena lo raffigurava mentre un masso gli cadeva sulla testa. In un’altra, scivolava dentro una profonda crepa del terreno. In una terza, era impegnato nel salvataggio della compagna da un crollo notturno della caverna. Ma la successiva espressione delusa suggeriva avesse probabilmente salvato la suocera.
A pochi metri, un’incisione in una lingua antica recitava:
Lunga vita al dio del terremoto.
La traduzione la sto fornendo io, per chiarezza. Per Delilah erano scarabocchi privi di senso.
Morgana si agitò. Si avvicinò alla parete e cominciò a sbatterci sopra la manina, con forza e ritmo crescente. Il suo volto era teso, gli occhi larghi, le ali quasi rigide.
I suoi occhi esprimevano uno stupore antico, qualcosa tra l’inquietudine e il riconoscimento, come se quei segni le ricordassero qualcosa che non riusciva a collocare.
«Rispetto, Morgana. Sono testimonianze preziose!» la sgridò Delilah.
Più in là era inciso Forza Juve.
Delilah inorridì.
Poco dopo incrociarono una donna incappucciata, con un abito nero lungo fino ai piedi, lo sguardo basso, e un’aura misteriosa.
«Salve» disse con voce neutra.
«Salve» rispose Delilah, capace solo di imitare, infastidita, i saluti degli estranei.

Finalmente giunsero a una cascata. Il getto cadeva da un’altezza considerevole, dividendosi in mille fili lucidi, rapidi, che colpivano con violenza lo specchio d’acqua ai suoi piedi. Ai lati, rocce scure e muschio verdastro. L’aria era fresca, carica di vapore, e intorno aleggiava una leggera nebbia trasparente. Le gocce si sollevavano in sospensione come pulviscolo d’argento.
«Posto incantevole, davvero. Ma non riscontro alcuna magia, Mr Busy ne rimarrà deluso» disse Delilah.
Morgana fece una smorfia.
«Hai ragione, Morgana. Probabilmente alludeva alla magia della natura, alla sua maestosità sfuggente, alle sue leggi a volte incomprensibili.
Quell’uomo è inutilmente pomposo. Ma perché mandarmi qui?»
Si voltò, ma Morgana aveva smesso di ascoltarla. Una luce violacea le si stava avvolgendo attorno, come una spirale lenta.
Aveva gli occhi fissi sul punto in cui la cascata veloce incontrava lo specchio piatto.
La luce tremolava, impazziva, poi si calmava, poi riprendeva a vibrare. A un tratto si formarono delle onde, poi sagome sempre più definite:
La testa di un cavallo.
Un carro armato.
Una sirena dai lunghi capelli fluenti.
Il volto di Romano Prodi.
Infine, una teiera.
Poi la luce svanì.
Tutto tornò com’era prima.
Delilah sospirò.
«Okay. Questo è stato bizzarro.»

Delilah si inginocchiò di nuovo e affondò la testa nell’acqua agitata dalla cascata, decisa a completare l’opera di pulizia. Il getto la sferzava sul cranio, ma sopportò. Aprì gli occhi sott’acqua, stringendo le palpebre per resistere alla pressione e al freddo.
Lì sotto, nel fondo increspato, vide un corpo.
Un uomo, sulla sessantina, galleggiava tra le rocce sommerse.
Indossava ancora il suo completo — ormai sformato — e gli occhiali, con le lenti rotte, erano incastrati tra capelli fitti che, pur immersi, apparivano fastidiosamente vaporosi. La testa era piegata, il viso pallido.
Era inequivocabilmente Mr Busy.
Appena ne fu certa, Delilah emerse di scatto. Restò piegata sopra l’acqua, ansimante, con i capelli bagnati incollati alla fronte e al collo.
Si specchiò nella superficie. Era finalmente linda e il suo caschetto bagnato incredibilmente sexy.  
«Morgana… Mr Busy ci ha già inviato il pagamento?»
La fatina scosse lentamente la testa.
Delilah cadde in ginocchio nel fango, allargando le braccia, disperata.
«Maledizione! Era ancora giovane! Ricco! E stupidamente generoso!»
Morgana si affacciò, cercando di capire di cosa stesse parlando.
«Perché, Morgana? Perché certe persone se ne vanno così prematuramente?» si lamentò Delilah. Sottolineò la parola prematuramente diverse volte.
«Dobbiamo capire cos’è successo.  A volte bisogna indagare spinti dal fuoco sacro della ricerca della verità, e non per i soldi.»
Indicò Morgana con l’indice. «Segnatela questa frase. Potrebbe andare nel mio libro di aforismi.»
Morgana estrasse la sua agenda di Hello Kitty e disegnò uno scarabocchio informe.

Trovarono alcuni cespugli bassi, dai rami contorti e pieni di piccole bacche rosse, lucide e regolari. Le foglie erano strette, seghettate, con venature scure. Un profumo dolciastro aleggiava nell’aria.
Ne raccolsero a manciate e le mangiarono con gusto saziando la fame.
Erano frutti allucinogeni. Ma questo lo avrebbero scoperto solo più avanti.

Delilah notò uno strano masso che spuntava dal terreno.
Era allungato, cilindrico, leggermente curvo, massiccio.
Sulla sommità, un piccolo rigonfiamento. Era impossibile non notare una somiglianza col membro maschile.
Incuriosita, Delilah accarezzò  con un sorriso birichino quella parte che ricordava chiaramente un glande. Poi fece finta di praticargli una masturbazione.
«Che vigore!» esclamò.
«Oh, non guardarmi così, Morgana! Non si smette mai di essere bambini!»
Le fece una pernacchia.
Proprio allora il terreno tremo più forte che mai.
I massi vicini cominciarono a crollare, trascinando con sé rocce più piccole e interi pezzi di terra.
Le piante si piegarono, i rami si spezzarono. Un rombo profondo si propagò tra le montagne.
Poi, dietro di loro, qualcosa si sollevò.
Una massa rocciosa enorme, che fino a poco prima sembrava parte del pendio, si staccò dal terreno.
Continuò a salire, raggiungendo un’altezza assurda, assurda, impossibile.
La forma si definiva: arti enormi, un busto, una testa massiccia.
Era un gigante di roccia, e si stava muovendo verso di loro.

Delilah correva. I piedi affondavano nel fango, gli stivali ormai zuppi, le ginocchia che sfioravano ogni volta radici e pietre sporgenti.
Morgana, dietro di lei, agitava le ali al massimo della forza, il volo incerto, sbandando a ogni folata.
«Quello doveva essere il pene in erezione del gigante e io l’ho svegliato. Oddio, ho perso il tocco»
Era una fuga inutile. Le gambe ciclopiche del gigante coprivano tre volte la loro distanza in un singolo passo. Ogni suo movimento era un terremoto.
La teoria di Delilah era che il gigante stesse dormendo e che quelli ritratti nella luce violacea fossero i suoi sogni. Si chiese quali di quelle immagini le avesse provocato l eccitazione, mentre ridacchiava inopportunamente.
Il gigante era ormai sopra di loro. Non serviva voltarsi. Bastava l’ombra enorme, scura, fredda, che si stendeva sul terreno.
Ai lati di Delilah spuntarono dita rocciose, spesse come tronchi.
Poi la presa.
Delilah fu sollevata in aria con violenza, come un insetto vittima del gioco di un bambino sadico.
«Questo non era previsto,» sibilò a denti stretti con la voce già spezzata dalla pressione.
L’altra mano afferrò Morgana, che scomparve dentro il pugno. Ma la fatina, così minuta, si liberò con un guizzo e sgattaiolò via.
Intanto, la presa su Delilah si stringeva.
Sentiva la pressione sulla cassa toracica, lo scricchiolio delle costole. Il respiro si faceva corto, spezzato. Le braccia bloccate, i gomiti piegati in direzioni innaturali, le cosce schiacciate contro la roccia dura. Un calore acido le saliva dallo stomaco fino alla nuca. Gli occhi si riempivano di lacrime, spinte dalla tensione muscolare, dalla paura, dal dolore puro.
I denti digrignati, la mandibola bloccata, le vene pulsavano al collo. Ogni battito del cuore era un colpo sordo, confuso, come se il sangue cercasse una via di fuga che non trovava.
«Mi fai male, figlio di puttana!» urlò Delilah.
«Aargh!! Morgana, fai… qualcosa… Questo è muto come te… aargh!!»
Morgana si librò in aria e volò verso la testa del gigante. I suoi occhi incrociarono quelli della creatura, grandi come scudi, scolpiti nella pietra.
Si guardarono a lungo.
Delilah sperava vivamente potessero comunicare.
E sì, potevano.
Ma ci misero un po’ a farglielo sapere.
Morgana iniziò a gesticolare.
«Torturala un po’. Non è malvagia, ma mi fa tribolare.»
«AAAAAAAAARGH!!» strillò Delilah. Per qualche dannato motivo il gigante conosceva il linguaggio dei segni.
«No, beh, non esagerare.» puntualizzò Morgana.
«Aaaaaaargh!»
«Freschino, eh?» fece Morgana, osservando le nuvole compatte sopra di loro.
«Già, speriamo non si metta a piovere. Il cielo non promette bene.»
Rispose il gigante, telepaticamente.
«Devi aver proprio freddo a girare con quel vestitino striminzito e scalza.»
Aggiunse, lanciando un’occhiata ai graziosi piedi nudi di Morgana, che fluttuavano a pochi centimetri dal suo naso.
«Non ho altri vestiti, non esco mai di casa. E dimmi, che fai, studi? Lavori?»
«Ghhhhhh!!» fece Delilah.
«Sono il guardiano della foresta, da secoli ormai. E tu?»
Bella domanda.
Cosa faceva Morgana, esattamente?
Era un’assistente? E allora perché non la seguiva mai nelle sue missioni?
Certo, era lei stessa a non voler uscire mai di casa, questo era vero.
Era la sua servitrice, allora? Che pena.
Era davvero quello il suo ruolo?
Forse sì.
Ma il suo aiuto andava ben oltre i semplici impieghi domestici.
Aveva dei poteri magici, accidenti. Aveva aiutato Delilah decine di volte.
Le aveva anche salvato la vita.
Che domanda difficile.
Possibile non ci avesse mai riflettuto prima? Che stava facendo della sua vita?
«L’agente immobiliare.» rispose.



Capì che Delilah aveva sofferto abbastanza. Volò rapida davanti al volto del gigante e, con gesti netti e urgenti delle mani, gli chiese di liberarla.
Il gigante la osservò un attimo, poi scosse lentamente la testa.
«No. Non posso lasciarla andare. Ormai è parte della foresta.»
La voce le si fissò nella mente, grave, ineluttabile.
«È lo scotto da pagare per chi pratica atti sessuali al pene sacro del guardiano.»
Le pupille di Morgana tremavano come fosse la protagonista di un anime giapponese.
«Ti ricordi di Suor Nottingham? Quella dolce e anziana suora la cui scomparsa fu trattata su tutti i giornali qualche anno fa? Beh… passando di qui... si era destreggiata in una fellatio.
E ora guardala.»
Indicò con un dito un grosso ammasso di pietra poco distante.
«È quella roccia lì. Quella a forma di suora.»
Ci voleva molta fantasia per vedere una suora in quelle forme, ma Morgana si fidò. Rimase immobile, con lo sguardo basso. Poi insistette.
Pregò.
Supplicò.
Doveva esserci un modo per liberare Delilah.
«Certo che c’è,» rispose il gigante, con calma.
«Qualcuno deve sacrificarsi. Rinunciare al proprio sogno più grande.
Quel sogno che ti tiene in vita. Quello che ti convince ad alzarti la mattina, anche nei giorni più tristi.»
Morgana lo sapeva esattamente, quale fosse il suo.
Desiderava tanto avere il dono della parola. Parlare, ma non solo.
Amava ascoltare le grandi voci della musica. Mina. Aretha Franklin. Sabrina Salerno.
Che meraviglia sarebbe anche solo provare a imitarle. Sentire la propria voce vibrare nell’aria, muovere emozioni intonando una melodia.
Fece un gesto lento. E solenne. Le mani si aprirono con grazia, poi si chiusero, si portarono al cuore.
«Rinuncio al mio sogno.»
O almeno, così sembrava dire. La teatralità del movimento lasciava poco spazio ai dubbi.
«Bene» disse il gigante.
Poi esplose in una fragorosa risata.
La mano che stringeva Delilah si gonfiò, come se nutrita da nuova forza, e iniziò a stritolarla con rinnovata violenza.
La bocca di Delilah si spalancò in un urlo atroce e lacerante.
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!»
Morgana non capiva.
Aveva lo sguardo pieno di orrore, le mani paralizzate, distrutta dalle urla strazianti della sua padrona.
Nonostante il volume assordante, sembrava sentire chiaramente le ossa spaccarsi.
«Fermati! Cosa stai facendo?!»
I gesti si fecero confusi, disperati.
«Che spirito nobile, cara fatina. Ma forse… non sono stato del tutto sincero con te.»
La voce si fece più cupa.
«Ora la tua padrona appartiene alla foresta.
Il tuo sacrificio ha sancito il passaggio di proprietà.»
Morgana era sbigottita. Gli occhi colmi di lacrime.
Lacrime che divennero opache, poi scure, poi nere.
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!»
Ancora quell’urlo.
Delilah, la sua Delilah, veniva torturata senza pietà.
«Delilah, no! Lasciala stare, ti prego!»
Le lacrime colavano sempre più dense, come inchiostro.
Poi, pian piano, non vide più nulla.
E perse i sensi.

Morgana cominciò a percepire il terreno duro e umido contro la schiena.
L’odore del muschio e della terra bagnata le entrò nelle narici prima ancora che la vista si riprendesse. Socchiuse gli occhi, l’immagine tremolante di una figura familiare cominciò a formarsi sopra di lei, sfocata, in controluce.
«Morgana!» gridò Delilah. «Stai bene?!»
La fatina fece sì con la testa, lentamente, ancora confusa.
«Oh mio dio, pensavo saresti morta!»
Fece qualche singhiozzo, le mani tremavano, poi si piegò su un fianco e vomitò addosso a un povero anemone bianco, che ondeggiò pentito di essere lì.

«Quel gigante ti stava stritolando brutalmente, Morgana…
E invece sei qua. Tutta intera.»
Si lanciò ad abbracciarla, con forza, con slancio, con emozione — come non aveva mai fatto in vita sua.
Morgana, sorpresa e imbarazzata, si irrigidì per un attimo, poi lasciò che le braccia di Delilah la stringessero.
«Erano solo visioni, fortunatamente. Colpa di quelle dannate bacche.»
Morgana cominciava a capire.
Delilah aveva vissuto la stessa esperienza che aveva vissuto lei… ma a parti invertite.
E come glielo spiegava?
Troppo complicato.
Meglio lasciar perdere. Meglio godersi quell’ondata d’amore inattesa, così nuova e goffa, ma sincera.
Poi mirò Delilah vomitare e sciacquarsi la faccia ripetutamente per circa mezz’ora.
Quando si rimisero in marcia, il sole era già basso.
Tornarono indietro, senza fretta, senza parlare, finché non giunsero di nuovo alla cascata.
Delilah si fermò. Osservò l’acqua che scrosciava.
«Ma allora anche il cadavere di Mr Busy…»
Affondò la testa nell’acqua, trattenne il fiato qualche secondo, poi riemerse.
«Mmm no, quello c’è veramente.»
Morgana si voltò lentamente verso di lei.
«Questo complica le cose» disse Delilah.


*


Il giorno dopo fu terribile.
Delilah non ricordava di essere mai stata così male in vita sua. L’effetto delle bacche continuava a tormentarla, e la giornata si trasformò in una spola continua tra il bagno e la camera da letto. Non pensava fosse umanamente possibile vomitare tanto e così a lungo.
Ogni volta che si trascinava tra una stanza e l’altra, passava accanto a Morgana, seduta con compostezza su una mensola, intatta, con le ali ben piegate, lo sguardo curioso e vispo.
Delilah la fissava in cagnesco, profondamente invidiosa del suo perfetto stato di salute.
Ogni tanto dava un’occhiata per sbaglio allo specchio e inorridiva. La figura che le restituiva era solo un 8, 8 e mezzo in termini di bellezza. Inaccettabile.
Il telefono squillò.
Morgana si alzò in volo e gli porse la cornetta.
«Pronto…» disse Delilah, fiaccamente.
La voce all’altro capo era pedante, noiosa, infastidita dal proprio stesso tono, come un uomo abituato ad ascoltarsi troppo.
Delilah sollevò un sopracciglio. Un filo di energia le tornò in corpo.

«Mr Busy… voi… voi siete vivo!»
«Che diavolo significa… certo che sono vivo. Oh! Dovete aver guardato sotto la cascata!
Un mio macabro vezzo, sapete… ogni tanto anche a me piace evadere dalla noia.»
«Notevole, Mr Busy.»
«Perciò? Qual è il vostro verdetto, Miss Mercier?» chiese lui, curioso.
«Purtroppo nessun segno di magia» rispose.
«Vi consiglio solo di segnalare come non commestibili le bacche di alcuni cespugli.»
Una breve pausa.
«Capisco… Nessun gigante che dorme e scuote il terreno quando si gira tra un sogno e l’altro?»
«Gigante?»
«Oh, scusate… è solo una stupida leggenda che si narra da quelle parti.»
Delilah si raddrizzò. «Ma…»
«Vi saluto. Presto vi arriverà il bonifico con l’importo pattuito.»
E chiuse la chiamata bruscamente.


*


La gamba di Delilah dondolava nervosamente, accavallata sull’altra. Dalla punta del piede penzolava un’elegante décolleté nera, a tacco sottile.
Attorno, decine di persone, per lo più anziane, attendevano come lei, ma mostrando una soglia della pazienza ben più alta.
L’ospedale di Valquindre era un edificio vecchio e triste. Quasi orgoglioso di esserlo. Sembrava non voler guarire nessuno, ma soltanto conservare il dolore. I corridoi erano piastrellati di bianco.
Alcune colonne doriche in gesso si alzavano  qua e là senza alcuna logica architettonica. Molte erano scheggiate, alcune spezzate, altre appoggiate con disinvoltura a termosifoni roventi.
Dal soffitto della sala d’attesa pendeva una luce al neon intermittente, che gettava sulla pelle dei presenti una tonalità livida, quasi da obitorio. Illuminava anche un antico affresco: frammenti di una scena biblica che ritraeva Adamo ed Eva, laceri e nudi, in fuga dal Paradiso. Solo pezzi erano rimasti visibili: una costola, un serpente, un mezzo pomo; il resto scompariva tra intonaco cadente e muffe nere.
“Quanto diavolo ci vuole per ritirare un referto?! La sanità in questa città è allo sfascio.”
Finalmente, una signorina la chiamò.
«Signora Mercier? Il medico vi vuole parlare.»
Fu condotta in una sala visita. Lì l’attendeva un medico: circa quarantacinque anni, dal fisico scolpito, e un volto perfetto per fare da protagonista in una soap opera.
«Cos’è successo alla sua parente?» chiese. «E dov’è adesso?»
Delilah inarcò un sopracciglio. «La radiografia è mia, non di una parente.»
Il medico trasalì.
Prese in mano la lastra. Guardò Delilah. Riguardò la lastra. La sua espressione cambiò. Lo sguardo si fece inquieto.
«È… impossibile. Dev’esserci un errore. Secondo questa radiografia…voi dovreste essere un cumulo di frammenti ossei sparsi sul pavimento. Le vostre ossa sono spezzate in decine di punti, a qualsiasi livello del corpo.»
Delilah sbiancò.

A qualche decina di chilometri di distanza, una mano bianca e sinuosa, con le unghie dipinte di nero lucido, accarezzava lentamente il pelo soffice e argenteo di un gatto persiano, seduto compostamente accanto a una poltrona ricoperta di velluto color colbalto e bordata d’oro, con zampette di leone intagliate, in stile francese del XVII secolo.

Al polso della donna, un bracciale di smeraldi brillava come un veleno incastonato nella pelle.
La stanza sembrava appartenere a una villa antica, immersa in uno stile barocco gotico.
Il tappeto, finissimo, color sangue, intarsiato in oro, rappresentava Zeus nudo e muscoloso, avvolto in un groviglio di saette.
Accanto a lui, la dea Atena, era la vera protagonista: anch’ella nuda, con capelli lunghissimi, seni tondi e prosperosi, ventre invitante, con l’ombelico come un sole, natiche sode, gambe lunghe e toniche, e piedi nudi affusolati, disegnati con perfezione greca.
Attorno a loro, figure bronzee di uomini e donne flagellati, in ginocchio, con i volti contorti dal dolore, come vittime di un’antica e oscura punizione divina.
Il soffitto a cassettoni in ebano sorreggeva un enorme lampadario in ametista, di una geometria minacciosamente complessa. I cristalli, tagliati come artigli, rifrangevano la luce in tonalità violacee, mentre catene nere lo tenevano sospeso in aria.
Le pareti erano interamente ricoperte da quadri in stile caravaggesco, in cui numerosi personaggi storici erano raffigurati crocifissi, alla maniera di Cristo.
C’erano la Vergine Maria, Giulio Cesare, Ottaviano, Cleopatra, Leonardo da Vinci, Napoleone Bonaparte, Caterina la Grande, Albert Einstein e molti altri, tutti ritratti con espressioni tragiche, illuminati da fonti di luce divina e circondati da buio profondo.
Accanto a un elegante pianoforte a coda nero lucido, con decorazioni d’avorio e zampe ricurve, sedeva un uomo su una sedia dorata, con lo schienale alto, rivestita di pelle nera e borchie d’argento. Le sue mani erano intrecciate in grembo.
Sul volto, un sorriso vanitoso e sornione.
«Mr Busy» disse una voce femminile, avvolgente e seduttiva «voi siete diabolici.»



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