«Passami il pacchetto di sigarette, Raul» disse una voce rauca e autoritaria. Scelse attentamente quale estrarre. Dopo una lunga disamina, la terza da destra gli parve la più giusta e la avvicinò alla bocca.
«Possibile che non ci sia mai un cazzo di accendino che funzioni?» si lamentò. Subito gli allungarono uno zippo in metallo con incisa una foglia di marijuana, fortunatamente funzionante.
«Cosa sono quelle facce sfiduciate, eh?» urlò, sbattendo i pugni sul tavolo e facendo cadere a terra alcuni carri armati del Risiko. «Raul! Levati quel fottuto broncio. Ti manca Laura, eh? Domenica il tuo cazzo sarà nella fica di tua moglie, hai la mia parola.»
Raul annuì debolmente, ma la sua espressione tradiva il sentore che sua moglie non l’avrebbe mai più rivista. Abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro. A nulla servivano i tatuaggi che sfoggiava con orgoglio, né la dentiera d’oro che brillava quando sorrideva. Non ce l’aveva la faccia da duro, e non ce l’avrebbe mai avuta.
«Allora, tutto chiaro?» I soldati annuirono, ma evidentemente non furono convincenti.
«Porca puttana! Ve lo dovete ficcare bene in testa, capito?» gridò, indicando uno per uno i presenti con la sigaretta accesa. «Un solo errore, uno, e saremo tutti morti. E domenica Raul non scoperà con sua moglie.»
Fece una pausa, attendendo che le parole si sedimentassero nell’aria, e una risata, che però non arrivò mai. Troppa tensione.
El Espárrago si chinò sul tavolo, un gomito poggiato direttamente, l’altro sul tabellone del gioco.
«Noi siamo i carri armati rossi. Questo è il nostro obiettivo,» disse indicando la Jacuzia. «Qui si trova El Sargento de Acero de la Tormenta Impetuosa, nella sua residenza secondaria. Ci sta di rado, ma uomini fidati mi hanno assicurato sia di stanza lì al momento. Non è escluso che la nostra cocaina sia lì, peraltro.»
Fece scorrere il dito verso la Siberia. «Da qui, sulla collina, uno dei suoi uomini controlla tutta la zona. Quel bastardo deve morire prima che riesca ad avvisare El Sargento.»
Poi si mosse verso la Kamchatka, dove un carrarmato nero segnava una rotta strategica.
«Questa è la loro via di fuga. Se le cose si mettono male per loro, proveranno a scappare di qui. Voglio dieci uomini posizionati lungo questa rotta. Chiunque passi da lì va abbattuto.»
Si raddrizzò, fissando la sua squadra con uno sguardo gelido.
«Il piano è semplice: attacchiamo prima dell’alba. La squadra principale entra dalla giungla a sud e colpisce la residenza. Un’altra squadra chiude la Kamchatka, bloccando ogni via di fuga. E voi,» indicò Raul con un cenno del capo, «attaccherete la collina in Siberia. Voglio quel bastardo morto prima che riesca a fiatare.»
Raul annuì, ma il sudore sulla sua fronte tradiva il nervosismo.
El Espárrago si alzò in silenzio, portandosi verso la finestra. Sollevò lentamente la veneziana, lasciando che la notte si intromettesse per un momento nel loro consesso. Le sagome delle montagne si intravedevano appena, svelate dalle chiome degli alberi qua e là illuminate dalla luna. Espirò profondamente. Il fumo della sigaretta si mescolò con l’aria fredda della notte. Poi richiuse la finestra sbattendola.
«Sapete, a scuola odiavo le interrogazioni. Mi chiedevo cosa volesse da me quel coglione con la giacca in tartan, da dove arrivasse la sua presunzione di potermi giudicare. Non riconoscevo la sua autorità perché non eravamo acque dello stesso fiume. Era fottuta acqua salata che evapora al sole. Io non evaporo, cazzo. Ma qui è diverso. Noi tutti siamo il Mississippi. Siamo la stessa acqua che va in una direzione ben precisa: il Golfo del Messico.»
«Tu, hombre» disse, puntando il dito verso un ragazzo magrolino, troppo fragile per stare lì, per misurarsi con quelle faccende da bruti. «Avvicinati. Dimmi, come procediamo dopo aver superato la giungla del nord.»
Il ragazzo deglutì a fatica. «Ci spostiamo in direzione est» rispose insicuro indicando un punto nel tabellone.
«Verso la Kamchatka, davvero?» lo incalzò.
«No, volevo dire... qui, in questa posizione» sbagliò di nuovo, confuso da una mappa che non aveva niente a che fare col territorio nel quale avrebbero effettivamente agito.
Espárrago non aspettò oltre. Lo afferrò per i capelli con entrambe le mani e sbatté violentemente la sua testa contro il tavolo, quindi lo scaraventò a terra, lasciandolo in un lago di sangue.
«Non ho intenzione di rovinarmi la reputazione per colpa di un branco di smidollati come voi!» ringhiò.
Gli altri rimasero immobili, lo sguardo fisso sul ragazzo svenuto a terra. Nessuno osava fiatare. O quasi.
Una figura rimasta fino ad allora silenziosa sbucò dall’oscurità: carnagione mulatta, naso largo e asimmetrico, occhi neri come un gatto che porta rogna, lunghi capelli color ebano.
«Perdonami, Espárrago. Il tuo piano è notevole, davvero, ma ho dei dubbi possa funzionare.»
Gli altri del gruppo rimasero impietriti.
«Per quanto secondaria, la base di Vilcabamba è ben protetta,» continuò Javier, senza alcuna esitazione. «Ci saranno centinaia di uomini sulle colline e altrettanti attorno alla residenza. Noi siamo solo poche decine.»
Quale insolenza nell'obiettare. Eppure il suo sguardo era duro e penetrante, incurante delle possibili conseguenze.
Espárrago lo fissò con occhi socchiusi, accarezzandosi la barba ispida, suggerendo fosse prossima un’esplosione di rabbia.
Invece no. «Grazie, Javier, la tua obiezione mi conforta.» Non lo dava a vedere, ma aveva grande stima di quel ragazzo. Era uno dei pochi con il coraggio di parlare. «Non c'è speranza di vincere, effettivamente.» I suoi uomini si guardarono attoniti. «O meglio, non ci sarebbe, se solo... non avessi un asso nella manica» affermò, frugando nella tasca della giacca.
Tirò fuori una pietra. Sembrava una gemma preziosa violacea, con striature iridescenti.
I soldati attorno al tavolo si scambiarono sguardi confusi, alcuni incuriositi, altri visibilmente perplessi. Espárrago sollevò la pietra all’altezza del viso, lasciando che tutti la vedessero.
«Questa pietra mi è stata venduta da un vecchio sciamano. Nemmeno lui conosceva il suo pieno potenziale, ma mi ha assicurato che i suoi poteri sono straordinari» spiegò.
«Quando sarà risvegliata,» continuò, «basterà toccarla per ottenere la forza di cento uomini, l’agilità di un’antilope e la ferocia di un leone. Una donna sarà qui a breve. Viene dall’Europa ed è la più grande esperta di occultismo al mondo. Lei saprà attivarla.»
I suoi occhi brillavano di trionfo. El Sargento de Acero de la Tormenta Impetuosa, il suo vecchio amico Pupi, il suo ex braccio destro, il traditore, aveva le ore contate. E con lui il Cártel de San Hierro.
I soldati si finsero convinti da quella teoria strampalata, ma uno di loro fece un errore imperdonabile: per un solo infinitesimale secondo il suo viso si era distratto in una smorfia intrisa di scetticismo. Purtroppo per lui, nulla sfuggiva a El Espárrago.
Espárrago abbassò la pietra e fissò Ramon con uno sguardo che sembrava trapassarlo.
«Ramon...» lo chiamò, scandendo il nome lentamente, quasi con dolcezza.
L’uomo sussultò, improvvisamente impallidì. Il suo orecchino d’argento oscillava leggermente, rivelando il suo tremore. Gli altri uomini al tavolo trattennero il respiro, evitando di incrociare lo sguardo del loro capo.
«Alzati,» ordinò Espárrago.
Ramon obbedì, sebbene le gambe gli sembrassero fatte di piombo.
«Coraggio,» continuò Espárrago, appoggiandosi con entrambe le mani sul bordo del tavolo. «Ammettilo. Credi che io sia un coglione, vero?»
«No, Espárrago, mai pensato una cosa del genere!» rispose Ramon, balbettando.
«Ah no?» replicò il boss. «Allora dimmi: questa pietra... è paccottiglia?»
«Non lo penso, davvero!» si affrettò a dire Ramon, con la voce sempre più tremante.
«Dillo,» insistette Espárrago. «Dillo forte: “Quella pietra è paccottiglia. Prenditi le tue responsabilità, Ramon.”»
«Non posso! Non lo è!» implorò Ramon, quasi in lacrime.
Espárrago fece un passo verso di lui, posando una mano pesante sulla sua spalla. La presa era così forte che Ramon sentì un dolore acuto, ma non osò lamentarsi.
«Sii uomo, Ramon,» continuò Espárrago «Sei sicuro di non averlo pensato? Nemmeno per un momento?»
«No, no! Non penso nulla di tutto questo!» rispose Ramon, la voce strozzata dal panico.
Espárrago si piegò leggermente verso di lui, il volto a pochi centimetri dal suo.
«Forse non sei il Mississippi, Ramon?»
«Lo sono, sono il Missippi!»
«No, non lo sei. Sei acqua salata. Dillo.»
«Non lo sono... sono acqua dolce, sono il Mississippi» squittì Ramon, fradicio di sudore.
«Quella pietra è paccottiglia.»
«No!»
«Quella pietra è paccottiglia!» esclamò Espárrago, indietreggiando verso il tavolo.
Ramon aprì la bocca, ma le parole non uscivano più.
Espárrago estrasse la pistola e gli sparò in fronte.
«Ramon è evaporato.»
*
«Quella pietra è paccottiglia» sentenziò Delilah appena la vide.
*
Delilah fissava i grossi, massicci, spessi, robusti, pesanti e granitici ceppi di metallo attorno alle sue caviglie. Evitava di andare più in là con lo sguardo, sui suoi irresistibili piedi, ancora una volta nudi. Ultimamente, non sapeva bene se attribuirlo a un destino avverso o a una vena persecutoria cosmica, ma ultimamente le costose scarpe che comprava avevano una vita brevissima. Sotto il suo fondoschiena il pavimento freddo e duro di una cella austera e sporca, attorno a lei pareti grigie e spoglie. attorno ai polsi altri ceppi. Espárrago non aveva gradito la sua pronuncia sulla pietra. E ancora meno la grassa e interminabile risata che ne era seguita. In un solo colpo aveva perso rispetto e fiducia dei suoi uomini che ormai guardavano all'imminente operazione come una condanna a morte. E così l'aveva rinchiusa in una cella, rimandando la decisione sul suo destino a dopo la missione. Durante quelle lunghe ore Delilah aveva avuto modo di riflettere, soprattutto riguardo la competenza della sua agente e l'attenzione con cui accettava i lavori che le propinava. Nel caso specifico aveva accettato la proposta 2 milioni di lunari nel caso di esito positivo, senza documentarsi su nulla, tanto meno sul mandante. Al momento, peraltro, non aveva preso ancora un soldo. Anzi, probabilmente sarebbe marcita in quella cella. O peggio, ci avrebbe lasciato le penne. Espárrago era chiaramente uno squilibrato: lo aveva edotto dai ventiquattro secondi di convivenza. E non solo. Lassù, sulla parte superiore della parete di fronte, c’era una grata che su un’altra stanza. Delilah poteva origliare conversazioni ovattate, frammentate confessioni, liti, e aveva perciò raccolto altre informazioni su Espárrago e la sua combriccola. Ecco cosa: El Espárrago aveva tatuata sull'avambraccio un freccia acuminata che però veniva confusa da chiunque per un asparago, da cui il soprannome; suonava la fisarmonica o l'armonica; si vantava di aver ucciso più di 40 uomini, 2 donne, 3 cani, un gatto per sbaglio, un orso di proposito, 121 lucertole, 2375 zanzare; era discromatopsico; aveva avuto due nonni paterni e tre nonni materni; adorava la fragranza di mughetto; non era mai stato nel Brunei; aveva un pene enorme; l'altro giorno era inciampato sulle scale e quasi si rompeva l'osso del collo; era stato con più di 226 donne, 228 per l'esattezza; non era mai stato con una belga, ne aveva conosciuta una ma ebbe un imprevisto; non era mai stato con una cingalese, e non si era nemmeno presentata mai l'occasione; aveva un conto in sospeso con un pescivendolo di Guayaquil; un tempo possedeva una mucca, si chiamava Flavia e sosteneva fosse l’unica creatura vivente che avesse mai guardato con vero rispetto; non mangiava i condimenti; era fan di Giulio Cesare; “non è importante quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi,” questo era il suo motto preferito; si alzava tardi al mattino, quando possibile; amava paragonarsi a un gatto con nove vite: ne aveva perse già otto; aveva uno strano feticismo per le nane; non aveva mai fatto uso di droghe; da bambino leggeva molti fumetti belgi; si lamentava spesso della coda alle poste; non considerava droghe la cocaina, l’eroina, la marijuana, le anfetamine, il crack, l’lsd, l’ecstasy e il cioccolato; si commuoveva con i cartoni animati di Tom & Jerry: la loro amicizia disfunzionale e tormentata ma allo stesso tempo intensa e fraterna gli ricordava il suo rapporto con Rodrigo, un suo vecchio compagno di scuola, ucciso per errore durante una rapina; preferiva il bagno in vasca alla doccia; odiava gli omosessuali.
Le davano da mangiare tre volte al giorno e, sorprendentemente, il cibo non era male. Nulla di elaborato, ma buono. Pane fresco, riso, carne speziata, perfino delle verdure croccanti. Qualcuno, da qualche parte, si stava prendendo la briga di nutrirla decentemente.
A portarle il vassoio era sempre lo stesso ragazzo, giovane e timido. Abbassava sempre il suo sguardo, timoroso di incrociare quello di Delilah. Viceversa, indugiava ogni volta di più sui piedi nudi; il rigonfiamento dei suoi pantaloni la divertiva.
Fortuna che aveva le unghie dipinte di smalto inibitore, uno smalto speciale, realizzato su misura per lei, per abbassare il livello di irresistibilità dei suoi piedi.
Mangiare era estremamente complicato a causa dei ceppi ai polsi. Anche solo afferrare una forchetta diveniva un impresa, e un paio di volte le sue urla di dolore per essersi rovesciata la zuppa bollente addosso avevano interrotto i colloqui di Espárrago.
Aveva diversi nemici in quella cella: gli scarafaggi, abominevoli creature che vagavano comparendo e scomparendo tra le crepe del pavimento, a volte colpevoli di un indesiderato e ripugnante solletico alle piante dei piedi di Delilah; il freddo e la durezza del pavimento, che le impedivano di dormire come si deve; un certo olezzo; e soprattutto la noia.
Anche una mente fervida e creativa come la sua aveva difficoltà a riempire tutto quel tempo vuoto. Si era immaginata diversi personaggi accorrere, piegare a mani nude le sbarre e liberarla: cavalieri, semidei greci, donne amazzoni, il postino che le aveva consegnato una raccomandata qualche settimana prima, Otto von Bismarck. Con quest'ultimo, prima di fuggire ci avrebbe fatto l'amore, sfidando la sorte e il sonno leggero dei secondini.
Contava. Contava le crepe, le pareti della stanza, le parolacce dei suoi rapitori; contava pecore, lupi, numeri, perché no, mensole, peni in erezione. Si inventava motivetti melodici che sognava di suonare un giorno al pianoforte, ma che, pur aggrappati ai neuroni, non avrebbero resistito al freddo vento che strappa via la memoria. Per la maggior parte fissava le pareti grigie della cella e i volti umani che le macchie, le incrostature e le crepe disegnavano. A farle compagnia c'erano proprio i suoi nemici, i disgustosi scarafaggi con cui si divertiva a fare la guerra. Ne afferrò uno con le dita dei piedi, era il loro re. Lo strinse tra l'alluce e il secondo dito smaltati di rosso, schivando lo schifo che provava, e iniziò a stritolarlo. Lo scarafaggio dimenava le sue zampette infette che scalfivano impercettibilmente la morbida pelle dei metatarsi di Delilah. La donna lo scrutava con un misto di rabbia e disgusto, fino a quando un moto di misericordia le fece allentare la presa. «Spero tu abbia capito la lezione.» In realtà era una questione di feromoni: lo smalto, progettato per inibire gli umani, attirava gli insetti. Lo scarafaggio sgusciò via lontano da quel gigante crudele. Un altro intanto si sfregava le zampe e gongolava: il re sarebbe stato costretto ad abdicare.
L’operazione era ormai prossima. Delilah percepiva il fremere dei narcos, l’agitazione salire, l’aria divenire più pesante. Espárrago era ancora più irascibile del solito. I suoi spari intimidatori rimbombavano nella cella come tuoni soffocati, scuotendo le pareti di cemento e facendole sussultare i ceppi ai polsi. Il tanfo di sudore, paura e polvere da sparo aleggiava nell’aria, mescolandosi al suono concitato delle voci concitate al piano di sopra.
Poi venne la notte dell’attacco.
Il silenzio, d’un tratto, divenne ancora più soffocante, come se la villa intera trattenesse il fiato. Delilah sentiva il battito del suo cuore martellarle nelle orecchie, il ticchettio dell’orologio nella sala sopra di lei, lo stillicidio monotono del rubinetto che perdeva, il fruscio degli scarafaggi che si muovevano tra le crepe, sussurrando trame losche intrighi di potere.
Urla spezzate. Passi pesanti. Gemiti di dolore. Il rumore sordo di corpi trascinati sul pavimento. Plink… plink… plink… Gocce di sangue cadevano dalla grata sulla pietra, ritmandosi con il ticchettio dell’orologio. Gli uomini erano tornati e non c’era bisogno di vedere per capire. Non era andata bene.
E subito dopo, il boato.
CRASH! Vetro in frantumi. TATATATATATATA! Mitragliatrici. BOOM! Un’esplosione fece tremare la base. PAK! PAK! PAK! Spari secchi, vicini, troppo vicini.
«Prendi questo, figlio di puttana!»
BANG! BANG! BANG! Un urlo strozzato. Un corpo che cade con un tonfo sordo. TRAKRAKRAKRAK! Raffiche di colpi squarciavano la notte. Ossa maciullate, corpi dilaniati, schizzi di sangue ovunque.
SBADABOOM! Qualcosa esplose al piano di sopra. Urla, altre urla. KRAK! Un osso spezzato. SCRUNCH! Un coltello che affondava nella carne.
Delilah ascoltava in silenzio, immobile nella sua cella, immaginando un pacchetto di popcorn tra le mani serrate nei ceppi.
TATATATATATA!
Un’ultima raffica squarciò l’aria, seguita da un KLANG!, un’arma che cadeva, un corpo che si abbatteva sul pavimento con un tonfo THUD. Poi il silenzio.
Solo rumori di passi, fiati pesanti e voci che Delilah riconosceva.
Era chiaro ormai: El Sargento de Acero de la Tormenta Impetuosa aveva battuto El Espárrago. Chi avrebbe mai potuto prevederlo?
Delilah si umettò le labbra. E ora? Le sue sorti erano più incerte che mai. Che ne avrebbero fatto di lei? Sarebbero stati magnanimi? O tutt’altro? L’avrebbero picchiata? Stuprata? O l’avrebbero liberata?
D’un tratto si accorse di un’emozione nuova, un brivido diverso dal freddo che l’aveva tormentata per ore: l’ansia.
Un’ansia che, fino a quel momento, era riuscita ad aggirare senza nemmeno sapere come. Ora invece la sentiva montare, insinuarsi nelle viscere, farsi strada tra i pensieri. Strusciò i piedi nudi l’uno sull’altro, mentre il respiro si fece più affannato e gli occhi sbattevano le palpebre con una frequenza inaudita.
Cosa successe?
Assolutamente niente.
Nessuno scese da quelle parti. Nessuno la cercò. Nessuno si accorse della sua esistenza. Forse era una buona notizia. Forse era pessima.
Nessuno sarebbe passato di lì, nessuno l’avesse trovata… sarebbe morta di stenti e il suo cadavere l’avrebbero divorato quei maledetti scarafaggi, con cui, si rese conto, aveva vinto una battaglia, sì, ma perso la guerra.
Finalmente, Delilah decise di rivolgere la parola al prigioniero con cui condivideva la cella. Era una tipa diffidente, lei, e a quanto pare lo era anche lui. Era un anziano spelacchiato, con la pelle cadente e scolorita, e le braccia e le gambe talmente sottili che sembravano potersi sfilare dai ceppi che le imprigionavano. Era rimasto immobile per tutto il tempo, così silenzioso che a malapena si udiva il suo respiro.
«Vecchio, a quanto pare ci faremo compagnia fino alla morte. Ormai prossima,» disse Delilah con un sorriso amaro.
L’uomo alzò la testa e la fissò a lungo. Sembrava sempre sul punto di aprire la bocca e parlare, ma non lo faceva mai. Aspettava. Attendeva il momento giusto.
Poi, all’improvviso, cominciò.
«Tu non morirai certo qui, Delilah Mercier.» La sua voce era calda e vigorosa, in antitesi con la fragilità del suo esile corpo.
Delilah sgranò gli occhi. «Chi sei? Come conosci il mio nome?»
L’uomo inclinò leggermente la testa. Il suo sguardo era impenetrabile, ma al tempo stesso carico di un’autorità inspiegabile.
«Non mi riconosci? Io rappresento il destino. Il motore che muove le nostre esistenze. E per te prevede un altro finale, Delilah. Non importa se per raggiungerlo occorre infrangere la logica e le leggi naturali. Esso è più potente di tutto. Vattene di qui. I ceppi non ti stringono più, la cella è aperta. Ci rivedremo, Delilah Mercier.»
Delilah balbettò qualcosa. Troppe parole, troppi pensieri per riuscire a formularli. Chi cazzo era quel vecchio? Stava sognando? Stava impazzendo?
Finito di parlare l'uomo si piegò su sé stesso, di nuovo immobile. Delilah, liberata delle catene, si avvicinò e gli afferrò il polso. Nessun battito, era morto.
Si alzò, le gambe erano intorpidite dalla prigionia, ma non aveva tempo per fermarsi. Doveva andarsene. Ma prima… aveva qualcosa da cercare.
La villa.
Era sorprendentemente lussuosa. Nulla a che vedere con le topaie scalcinate che solitamente fungevano da covi per narcotrafficanti. Qualcuno con un certo gusto l’aveva arredata.
Pareti chiari, atmosfera minimalista, decorazioni raffinate. Delilah camminava a piedi nudi sul pavimento di marmo freddo, scivolando silenziosamente tra corridoi ampi e illuminati da lampadari di cristallo. Non c’erano pacchianate, nessun teschio dorato, nessuna pantera di ceramica.
Espárrago doveva averla comprata da poco, azzardò Delilah. Non aveva ancora avuto il tempo di avvilirla con il pessimo gusto che mostrava nel vestirsi. L’unico segno della sua presenza era un quadro, sopra un mobile antico: un dipinto di Giulio Cesare. Patetico.
Lo studio.
Rovistò ovunque. Aprì cassetti, frugò tra i documenti, controllò ogni angolo. Trovò una cassaforte. Il codice per aprirla era 1111, ovvio. Al suo interno giaceva la pietra magica che l’aveva condotta fino a lì. Delle sue adorate scarpe non c’era traccia, l’ennesimo paio costosissimo andato in fumo. Strinse la pietra e la gettò con rabbia contro la finestra che andò in frantumi. A seguire un sonoro «VAFFANCULO!!!»
Commenti
Posta un commento