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04: NEBBIA

 


Delilah Mercier addentò un biscotto con aria annoiata, fissando il vuoto oltre la tazza di tè ormai tiepido. Era quello il suo pranzo. Cucinare non le andava proprio a genio, e infatti l’unico modo in cui si nutriva nei giorni normali era questo: tè e biscotti. Le rare volte in cui si concedeva il lusso di mettersi ai fornelli, significava che era di ottimo umore, ma proprio ottimo. Peccato che quel genere di umore non si manifestasse spesso. L'alternativa era la buonissima pasta coi carciofi – rigorosamente penne – preparata da Morgana, ma dopo la quinta volta in una settimana, anche quella delizia aveva iniziato a nausearla. Morgana, del resto, sapeva cucinare solo quello.
Quella mattina, oltretutto, avevano avuto un piccolo battibecco. Delilah si era messa ad ascoltare The Worm degli ottimi Jack and the Wooden Shelves Band dopo colazione, e Morgana aveva osato storcere il naso. Delilah, in tutta risposta, aveva afferrato il vinile e glielo aveva lanciato addosso con tale foga che si era frantumato in mille pezzi contro la parete.
Un fracasso improvviso dalla strada interruppe i suoi pensieri. Delilah sollevò appena un sopracciglio, sorseggiò il tè con indifferenza e sospirò: «Ah ecco, oggi non ce n'era stato ancora nessuno...» Si riferiva agli incidenti stradali nella sua via.
Non si alzò subito. Sapeva esattamente cosa fosse successo. Si avvicinò alla finestra, l’aprì con calma e si affacciò. Come previsto, non si vedeva nulla.
Non apriva mai la finestra per vedere, ma per ascoltare. E infatti...
«’A figlio de 'na mignotta, ma non m'hai visto?!»
«Certo che non t'ho visto, lo vedi che nebbia c'è?!»
Delilah sorrise, adorava i litigi tra automobilisti. Quando era fortunata, finiva in scazzottata. Purtroppo, non era quello il caso.
La nebbia stanziava nella città da più di una settimana. Era fittissima, impenetrabile, e soprattuto inamovibile. Non era nebbia normale. Non si trattava di semplice vapore acqueo, questo era certo. Nessuno, nemmeno gli esperti, riusciva a spiegarla. I giornali ormai sembravano sul punto di arrendersi. All'inizio avevano tentato di mantenere un tono rassicurante, con titoli come “Fenomeno atmosferico straordinario ma passeggero”, parlando di inversioni termiche e correnti anomale. Ma col passare dei giorni, la loro sicurezza si era sgretolata insieme alle ipotesi scientifiche, ridotte a un inutile “Nebbia persistente, temperatura stabile”, ripetuto ossessivamente come se fosse una spiegazione.
Gli editoriali si moltiplicavano, ognuno con la sua teoria: c’era chi parlava di un “raro accumulo di particelle in sospensione”, chi ipotizzava una combinazione di fattori climatici ancora sconosciuti e chi, ormai esausto, iniziava a lasciar trapelare la possibilità che la nebbia fosse qualcosa di inspiegabile. Ovviamente nessuno si spingeva fino a dire che potesse trattarsi di un fenomeno soprannaturale, ma tra le righe di certi articoli si percepiva una crescente frustrazione, un’insofferenza palpabile che lasciava intuire quanto brancolassero nel buio. La vita era diventata complicata, a tratti pericolosa, ma la gente non poteva far altro che aspettare e sperare che, prima o poi, la situazione migliorasse.
Delilah, invece, ci sguazzava in quella situazione. Adorava la nebbia. Misteriosa, densa, beffarda. Pensava che, se fosse stata un uomo, sarebbe andata in giro con il pene di fuori, salutando entusiasta i passanti inconsapevoli: «Buongiorno, signora Toser! Reverendo Spears, che Dio benedica anche lei! Signor sindaco, ossequi!» Ah, quanto si sarebbe divertita!
Fare l'equivalente, da donna, per qualche motivo, lo trovava molto meno divertente.
Si era seduta al pianoforte. La musica era un misto di rock progressivo e jazz, ricco di dissonanze e cambi di tempo improvvisi, un flusso continuo di accordi inaspettati e variazioni ritmiche. Il tocco di Delilah era sicuro, deciso, ma volutamente imperfetto. Si trattava di una sua versione di The Worm, suonata solo per fare un dispetto a Morgana. La sua mano destra si lanciava in scale veloci e incerte, mentre la sinistra picchiava accordi secchi e scivolava su variazioni audaci, sbagliando di proposito ogni tanto. Morgana la osservava in silenzio, appoggiata allo stipite della porta con le braccia conserte e un’espressione di palese disapprovazione.
All’improvviso, un bussare deciso alla porta interruppe la performance. Delilah finì la strofa con un mibemolle incerto, lasciandolo vibrare nell'aria come un punto interrogativo.
«Buongiorno, Madame Mercier!»

La voce frizzante e allegra proveniva da una giovane adolescente. Era una ragazza di colore con grossi occhiali dalla montatura spessa e capelli corvini raccolti in una coda. Indossava una maglietta nera smanicata che le scopriva… SBAM!
Delilah chiuse la porta di scatto e si voltò lentamente verso Morgana. Le due si guardarono a lungo, in silenzio..
«Che c'è?! Sono stata maleducata?» sbottò Delilah, mentre la fatina alzava le spalle con un sorrisetto.
Dopo un secondo di esitazione, tornò sui suoi passi e riaprì la porta.
...la pancia, jeans e scarpe da ginnastica.
Delilah si impegnò in un sorriso gentile che però tradiva una profonda irritazione.
«Scusate se ho osato disturbarvi,» disse la ragazza con entusiasmo sincero, «sono una vostra ammiratrice. Il mio nome è Daphne, Daphne Coval.»
Delilah la squadrò con lo sguardo di chi ha poca pazienza da regalare. «Ti sembra l’ora di bussare alla porta di una sconosciuta?»
«Le... 14.30?» rispose, con aria smarrita.
Nonostante tutto, acconsentì a farla entrare. Le aveva fatto simpatia, per qualche motivo. O forse, semplicemente, gongolava ogni volta che sentiva la parola “ammiratrice”.
Daphne strusciò le scarpe sullo zerbino prima di varcare la soglia.
«Non pulire i piedi sullo zerbino, ci tengo!» la sgridò nuovamente Delilah.
Era una delle sue reliquie più preziose, un regalo di Humphrey Bogart: rettangolare, di colore marrone, con la scritta Benvenut* stampata in lettere eleganti. L’asterisco consisteva nel volto fiero di Benito Mussolini che faceva l'occhiolino.
Daphne si guardò intorno, curiosa e incantata dalla quantità di oggetti bizzarri sparsi per il salotto. E quale gusto eclettico nell'arredamento, pensò.
Morgana, alla vista della nuova arrivata, non perse tempo e fuggì nella sua camera.
«La devi scusare,» spiegò Delilah «è stata allevata da una famiglia sudista dell’Alabama.»

Delilah riempì due tazze di tè con la stessa noncuranza con cui avrebbe offerto dell’acqua piovana. Versò il liquido ambrato lentamente, osservando le ultime foglie di tè fluttuare pigre nella teiera.
«Scusa per la temperatura,» disse, porgendo la tazza a Daphne senza troppe cerimonie. «Ne era avanzato dal pranzo, e non ho voglia di sprecarlo.»
Daphne accettò la tazza con un sorriso imbarazzato, soffiandoci sopra per abitudine, nonostante fosse già tiepida. «Va benissimo, grazie.»
«Allora, ragazza… che cosa ti ha portato a bussare alla mia porta?»
Daphne si agitò sulla sedia, lisciandosi i jeans con le mani. «Ecco, erano mesi che cercavo il coraggio di venire a trovarvi. Sono una studiosa di esoterismo e soprannaturale…» fece una pausa e aggiunse con una punta d’orgoglio, «…e anche di ingegneria. Insomma, un connubio perfetto di scienza e paranormale.»
Delilah le lanciò uno sguardo scettico, ma rimase in silenzio, sorseggiando il tè con una lentezza esasperante.
«Ed è una vera fortuna che un’istituzione come voi viva nella mia stessa città,» proseguì Daphne con un sorriso ammirato. «Non immagina quanto sia incredibile per me potervi incontrare di persona.»
Daphne si agitò sulla sedia, lisciandosi i jeans con le mani, mentre Delilah gongolò nuovamente, alla parola istituzione. «Ecco, erano mesi che cercavo il coraggio di venire a trovarla. Sono una studiosa di esoterismo e soprannaturale…» fece una pausa e aggiunse con una punta d’orgoglio, «…e anche di ingegneria. Insomma, un connubio perfetto di scienza e paranormale.»
«Notevole, davvero notevole. E capisco anche la reticenza a incontrare i propri miti» disse Delilah stiracchiandosi vanitosamente, «Spesso si rivelano deludenti.»
«Oh, ma nel vostro caso questo è impossibile!» obiettò Daphne, «E c’è un altro motivo se sono qui.» Daphne si illuminò. «In realtà, pensavo di avere una spiegazione per la nebbia.»

Delilah si irrigidì appena.
«Ah sì?» rispose, incuriosita.
«Credo di sì, ma immagino l’abbiate anche voi, vero?»
«A dire il vero, no» ammise Delilah. «Dimmi, vuoi continuare questa conversazione con un po’ di aria fresca? Mi è venuta voglia di fare una passeggiata.»
Daphne annuì.
La nebbia gelida le avvolse, proprio il genere di schiaffo di cui Delilah era alla ricerca.
«Ho costruito questo» Daphne mostrando un apparecchio dall’aspetto bizzarro.
«È il mio rilevatore di entità ultraterrene» disse con orgoglio, «Non solo individua la loro presenza, ma analizza anche la loro composizione chimica... se di chimica si può parlare.»
«Davvero?»
Daphne annuì energicamente. «Ecco la cosa interessante: ho rilevato una presenza compatibile con un Phantrix. La concentrazione è pressoché omogenea in tutta la città.»
Tossì un attimo, poi continuò. «In sostanza… so che può sembrare ridicolo, ma la mia teoria è che questa nebbia sia in realtà un enorme, mastodontico fantasma. Un Phantrix, appunto.»
La ragazza era impaziente di sapere cosa ne pensasse la sua eroina, ma presto si accorse di stare parlando da sola. La nebbia le aveva sedotte e poi ingannate. Passò un quarto d’ora buono prima che si ritrovassero.
«Quindi, mi dicevi che hai quattro fratelli...»
Daphne aggrottò la fronte. «Eh? Cosa...»
«Ah, non stavo già più parlando con te» constatò Delilah «Ha senso, la voce mi sembrava diversa effettivamente... e a pensarci bene, il mio conversatore miagolava.»
Delilah rallentò il passo godendosi la fitta coltre di nebbia che avvolgeva la strada come un vecchio cappotto troppo largo, costringendo Daphne a fare lo stesso. Nel frattempo, a pochi metri dalla coppia, un’auto tamponò una camionetta dei pompieri.
«Oh bischero di un bischero!» sbraitò l’autista della camionetta.
«Un Phantrix gigante, dici?»
«Ma te tu sei grullo o cosa?! Fermo in mezzo alla strada, e poi dai la colpa a me?!»
«Un Phantrix gigante, dici?»
«Se non mi levi ‘sta macchinetta da qui, giuro che ti ci pianto dentro col muso e ti porto a casa!»
«È una stupidaggine, non è vero?» domandò pentita Daphne.
Delilah restò in silenzio qualche secondo, mentre svoltarono in un viale alberato. Platani? Tigli? Olmi? Impossibile stabilirlo.
«Affatto. Credo tu sia sulla strada giusta» la incoraggiò Delilah. «Vediamoci alle 21 in punto davanti alla farmacia Opera, in piazza del Municipio. E porta un fischietto.»










Le 21 erano passate da un pezzo, e Daphne passeggiava nervosamente davanti alla farmacia Opera, stringendo il fischietto tra le dita. Cominciava a pensare che Delilah Mercier non si sarebbe mai fatta vedere. D’altronde, una donna come lei avrebbe mai perso tempo con una ragazzina? Troppo bello per essere vero. Sospirò, lanciando un’occhiata alla vetrina della farmacia.
La farmacia Opera si trovava al piano terra di un elegante palazzo liberty, con grandi finestre incorniciate da sottili decorazioni in ferro battuto. L’insegna verde, con lettere illuminate da tubi al neon, recitava il nome della farmacia, ma la “R” tremolava debolmente, accendendosi e spegnendosi a intermittenza. La vetrina, allestita con cura, esponeva esclusivamente medicinali per cantanti, perciò, sciroppi, spray lenitivi, tisane a base di erbe rare, pastiglie balsamiche per la cura della voce; e farmaci oppiacei e psicotropi per onorare una vita di eccessi.
Daphne sospirò, guardando il suo riflesso nel vetro e poi abbassando gli occhi sul fischietto. “A cosa servirà mai? Forse era un modo per segnalare la sua presenza nella nebbia. Si portò l’oggetto alle labbra e soffiò. Il suono acuto si disperse tra i palazzi avvolti dalla foschia.
Dopo qualche tempo, una figura snella ed elegante sbucò dall’ombra del municipio, avanzando con passo sicuro ma guardingo. Daphne strizzò gli occhi. La sagoma si avvicinava di soppiatto, stringendo in una mano quella che sembrava una valigetta.
«Scusami, Daphne, ho perso tempo in comune. Sai, questioni burocratiche, richieste di permessi...» spiegò Delilah con tono vago.
Daphne annuì, perplessa. Non aveva idea di come funzionassero certe cose, ma le sembrava insolito che gli uffici comunali fossero aperti a quell’ora. Decise di non indagare. Il sollievo di vedere Delilah era più forte della curiosità.
«Vieni, seguimi.» Delilah si avviò in un vicolo cieco poco illuminato. Ad aspettarle, una splendida Alfa Romeo Spider Duetto probabilmente rossa, parcheggiata con noncuranza contro un marciapiede.
Era una macchina sportiva, con una linea elegante e sinuosa, un po’ come la sua proprietaria, con la carrozzeria era lucida e immacolata e rifletteva le luci della strada. I fari anteriori erano rotondi e sporgenti, il cofano lungo e affusolato, la griglia anteriore grintosa con la sua tipica forma a triangolo. La capote in tessuto nero era ovviamente chiusa, con quel tempaccio.
L’abitacolo, al contrario, era un disastro: dischi sparsi ovunque, alcuni senza custodia, rossetti e ciprie aperte lasciavano scie di polvere sui sedili, un pacchetto di sigarette dimenticato, una pistola (?) e quattro armoniche a bocca sui sedili posteriori.
«Spero che i tuoi genitori non si preoccupino se torni tardi»
«Vivo con mia zia. Dorme tutto il giorno, e dire che non è apprensiva è un eufemismo.»
Delilah annuì, riflettendo. «Oh, bene... insomma, bene?» fece, incerta.
«Pro e contro. Ma almeno ho molta libertà.»
Quando Delilah mise la macchina in moto il ruggito dei quattro cilindri fece tremare tutto l’abitacolo. Daphne allacciò le cinture.

La lentezza della guida di Delilah era esasperante. Daphne fissava la strada con impazienza, mentre il continuo suono del clacson le martellava le orecchie. Delilah lo premeva a intervalli regolari, ossessivamente.
«Dove stiamo andando?»
«A Dovermont. È a un paio d’ore da qui.»
«E perché proprio lì?»
«Presto lo capirai,» rispose Delilah enigmatica, ma la conversazione fu resa difficoltosa dal continuo suono del clacson. Ogni volta che Daphne cercava di parlare, il colpo secco della tromba soffocava le sue parole. Dopo un po', decise di rassegnarsi e zittirsi.
Finalmente, dopo qualche chilometro, la coltre bianca iniziò a dissolversi, lasciando spazio alla campagna. La strada, ora visibile, era stretta, con una corsia per senso di marcia, fiancheggiata da file di alberi che si stagliavano come ombre scure contro il cielo. Sullo sfondo, le colline si delineavano appena, accarezzate dalla luce fredda della luna piena.
Nonostante la visuale fosse ormai libera, Delilah continuava a suonare il clacson. Daphne non riuscì a trattenere la curiosità e alla fine sbottò: «Ma perché continuate a suonare? La nebbia è sparita!»
«Oh, hai ragione. Che sbadata» rispose Delilah allontanando la mano dal mozzo del volante.
Daphne notò la bellezza delle mani della donna, le sue dita affusolate e le unghie impeccabili.
“E dammi del tu” disse dal nulla.
Daphne annuì. «Ma com'è che hai iniziato con tutta questa roba? Fantasmi, misteri... è sempre stata la tua passione?»
«No, inizialmente, mi ero iscritta a Giurisprudenza. Ma poi ho lasciato. Troppe facce da futuri avvocati.»
Daphne storse il naso. Se c’era una cosa che non le piaceva di Delilah, probabilmente l’unica, era il suo modo di sviare i discorsi. Adorava la sua ironia, ma a volte ne abusava. Oltretutto non capiva mai se stesse scherzando o parlando sul serio. O forse, la verità era un'altra: non si fidava abbastanza di lei per raccontarle la sua storia. Eppure Daphne moriva dalla curiosità. Doveva aver vissuto chissà quante avventure, e chissà quanta conoscenza si celava dietro quell'aria distratta.

Un cartello ai lati della strada annunciò l'ingresso a Dovermont. Le vie erano illuminate da insegne di ristoranti e taverne, con gruppi di persone che passeggiavano chiacchierando. L’aria era satura di odori di cibo e fumo, e i tavoli all’aperto erano pieni di avventori intenti a ridere e brindare.
«Non mi aspettavo tutta questa vita qui,» commentò Daphne, guardando fuori.
«Tutta facciata,» rispose Delilah con un sorriso.
Superata la zona più affollata, la città si fece più silenziosa. Le strade si allargarono, lasciando spazio a case sparse e qualche lampione solitario. A fianco della strada scorreva un piccolo canale, le cui acque riflettevano debolmente le luci distanti. Non c’era anima viva, se non un uomo calvo che giocava a morra cinese con una fontanella. A giudicare dalle sue reazioni sembrava star perdendo.
«Deve essere uno squilibrato» pensò Daphne.
Delilah accostò l’automobile e abbassò il finestrino. «Gino, non darmi buca venerdì!» gridò.
L’uomo rispose con un cenno della mano, un saluto militare, e poi tornò subito dopo alla sua partita.
L’Alfa Romeo si fermò pochi metri più in là, davanti a un cimitero poco illuminato.  Delilah spense il motore. «Coraggio, entriamo.»
Daphne deglutì, fissando il cancello dell'ingresso con una certa riluttanza. «Proprio al cimitero?»
«Certo. Si tratta di spettri, dove pensavi di andare?»
Aprì il bagagliaio e ne tirò fuori un sacco gonfio di chissà cosa. «Dobbiamo scavalcare?» chiese Daphne preoccupata. «No, ho la chiave.»
«Hai la chiave del cancello del cimitero di Dovermont?»  
«È un passapartout per cimiteri, comodo davvero» spiegò Delilah con nonchalance.

Le tombe emergevano dall'oscurità, alcune ornate da fiori appassiti, altre abbandonate, con il muschio che si insinuava tra le crepe e i rovi. Piccole lanterne tremolavano qua e là, gettando ombre lunghe e contorte. Il silenzio era rotto solo dal fruscio dei loro passi sulla ghiaia.
Daphne camminava fianco a fianco a Delilah, combattuta tra la paura e l’eccitazione. Era fianco a a fianco con la migliore nel suo campo, una vera professionista, e stava per assistere a un’indagine su un fenomeno paranormale che nessuno sarebbe stato in grado di spiegare. Quante cose avrebbe potuto imparare! Eppure, il cimitero la inquietava.
Si guardò intorno, stringendosi nelle spalle. E se qualcuno le avesse viste? E lo spettro? Che intenzioni aveva? Era pericoloso? Delilah sembrava del tutto a suo agio, ma Daphne non riusciva a scrollarsi di dosso l'ansia. E poi, perché proprio Dovermont? Cos’aveva di speciale quella città? Cosa nascondeva davvero?
Proseguirono lungo un sentiero buio fino a fermarsi davanti a una tomba di marmo, sormontata da una statua in bronzo raffigurante un uomo in tunica, che teneva un piccolo libro in mano. La scultura era dettagliata, con pieghe realistiche nel panneggio della veste e un'espressione assorta sul volto. L'epigrafe incisa alla base recitava Riccardo Blanschmidt.
Daphne era pensierosa. Chi era quell’uomo? E che relazione poteva avere con il Phantrix?
«Di chi si tratta?» chiese a Delilah, cercando una risposta chiara.
«Non ne ho idea» rispose con la sua solita disinvoltura. «Ma guarda che bella statua. Il panneggio della veste, le vene che pulsano... Davvero un lavoro notevole.»
Daphne rimase interdetta. Si sarebbe aspettata una spiegazione più articolata, ma conoscendo Delilah, avrebbe dovuto immaginarlo.

Senza ulteriori indugi, Delilah si chinò, aprì la sua borsa e ne estrasse un piccolo fornello da campeggio insieme a un pezzo di carne avvolto nella carta oleata.
«Anatra» disse. «I Phantrix ne vanno ghiotti.»
Daphne la osservava con un misto di incredulità e perplessità. «Aspetta... vogliamo attirarlo con della carne?»
«Esatto.» Delilah posò la carne sul piccolo tegame e il grasso iniziò subito a sfrigolare piano, rilasciando un aroma intenso nell’aria.
«Conosci l’origine dei Phantrix?» Daphne scosse la testa.
«Sono persone morte soffocandosi con carne d’anatra per la troppa foga» spiegò Delilah, «queste cose non le trovi scritte in nessun libro.»
Appunto, Daphne rimase in silenzio chiedendosi se fosse vero. No, non poteva dubitare di Delilah Mercier, per quanto la storia apparisse ridicola; lei era un’autorità, non poteva sbagliarsi.
Si sedettero a terra attorno al piccolo fuoco del fornello, che a quanto pare avrebbe attratto il Phantrix.

Presto arrivò la conferma che non si sbagliava: un puntino bianco fece capolino all'orizzonte. Daphne lo notò per prima. «Madame Mercier... cos'è quello?»
Delilah alzò lo sguardo dal fornello, osservando con calma il piccolo nucleo di nebbia che sembrava avanzare lentamente. «Oh... eccolo.»
Il puntino si ingrandì a vista d’occhio. La nebbia avanzava espandendosi e ispessendosi man mano che si avvicinava. Le tombe e gli alberi del cimitero sparirono uno a uno, inghiottiti dalla coltre bianca che si stringeva attorno a loro come un sudario. Presto, non ci fu più nulla da vedere, se non un bianco opprimente.
«Daphne, sei ancora qui?» chiese Delilah, con un tono più annoiato che preoccupato.
«Sì... credo di sì,» rispose la ragazza, incerta, allungando una mano per assicurarsi che Delilah fosse ancora al suo fianco.
«Bene. Pazienta un attimo.»
La coltre di nebbia iniziò lentamente a contrarsi, stringendosi su se stessa, come se fosse viva. Piano piano, tornò a diradarsi, lasciando intravedere le ombre delle tombe e la fioca luce del fornello.
E davanti a loro apparve una creatura curiosa: un piccolo guazzabuglio paffuto che fluttuava chinato sul fornello, dimenando le braccine trasparenti nel disperato tentativo di afferrare i tanto desiderati straccetti di carne d’anatra. Più falliva, più il suo viso si accigliava, e un lamento acuto, simile a uno squittio, riecheggiava nel silenzio del cimitero.
Daphne faticò a trattenere una risata. «Che sta facendo?»
Delilah incrociò le braccia e osservò la scena con un sorrisetto divertito. «Cerca di mangiarsela, ma ovviamente non può... è un fottuto fantasma.»
Il Phantrix continuava ad agitarsi frustrato, avvicinandosi sempre di più alla carne che, per quanto cercasse, rimaneva fuori dalla sua portata.
«Presto, andiamocene,» disse improvvisamente Delilah, spegnendo il fornello con un gesto deciso. «Se restiamo qui troppo a lungo, rischiamo di rimanere bloccati per giorni, quando si sarà gonfiato di nuovo.»
«E poi?»
Delilah la fissò perplessa. «E poi cosa?»
«Dovermont sarà avvolta nella nebbia... cosa faremo?»
«Nulla» rispose Delilah laconica.
«Nulla?» ripeté Daphne, sbalordita. «Mi vuoi dire che la soluzione al problema è stata semplicemente... spostarlo da un'altra parte?»
«Esattamente.»
Daphne la fissò incredula. «Ma... non capisco. Deve esserci un motivo se abbiamo attirato il Phantrix proprio qui a Dovermont...»
«Ho sempre piacere a venire qui. Amo questa città.» Delilah si vergognava a confessarlo, ma ciò che amava davvero di Dovermont era la gestione allegra delle sue casse del sindaco Alfio Yamaczuk. Era sicura che il compenso per trovare un rimedio a quella nebbia opprimente sarebbe stato più che generoso; altro che quello spilorcio del sindaco di Valquindre. Non aveva ancora avuto modo di aprire la valigetta, ma aveva il sospetto ben fondato che contenesse meno del denaro pattuito.
Mentre rimuginava sul vil dnaro, qualcosa apparve in lontananza. Delilah si immobilizzò.
«Mmh.» mormorò.
Daphne seguì il suo sguardo. Un’altra coltre di nebbia si avvicinava rapidamente, densa e minacciosa.
«Che succede?» chiese, preoccupata.
Delilah si morse il labbro. «Ne abbiamo attirato un altro.»
Daphne deglutì. «E se fossero... di più?»
«Presto, scappiamo. Abbiamo combinato un pasticcio!»
Afferrarono le loro cose alla rinfusa e corsero verso l’uscita del cimitero, mentre la nebbia tornava ad avvolgere ogni cosa dietro di loro.

Il viaggio di ritorno fu piuttosto malinconico. Daphne sedeva con le braccia incrociate e lo sguardo fisso fuori dal finestrino, osservando i contorni sfocati della strada che scivolavano via nella notte. Non parlava, non guardava Delilah, e il broncio sul suo volto lasciava chiaramente intendere la delusione che provava.
Delilah, come al solito, guidava con la sua esasperante lentezza, lanciando ogni tanto un’occhiata di sbieco a Daphne, studiandola, cercando di cogliere un segnale che rompesse quel silenzio ostinato.
«Suvvia, tra qualche settimana la nebbia e il Phantrix se ne andranno da soli,» disse con leggerezza, accennando un sorriso.
Daphne però non rispose. Continuava a guardare fuori, ostinata.
Delilah iniziò a giochicchiare col pomello del cambio. Stanca del gioco, cominciò a stuzzicare la giovane iniziando a pungerle ripetutamente la spalla col dito. Lei sbuffò irritata, ma non cedette.
Delilah non si arrese. «Forse mi hai idealizzata troppo.»
Daphne fece spallucce, apparentemente indifferente. Il silenzio tornò ad avvolgere l’abitacolo, rotto solo dal ronzio del motore.
Alla fine, la curiosità e la sete di conoscenza ebbero la meglio.
«Come mai i Phantrix si ingrandiscono così?» chiese, senza guardarla. «Non è un comportamento usuale.»
«Stress?»
Fu l'ultimo scambio di parole per tutto il viaggio.



La mattina seguente, Daphne si svegliò ancora intorpidita dal sonno. Si trascinò fuori dal letto con movimenti lenti e assonnati, stiracchiandosi mentre si dirigeva in cucina. Sua zia, seduta al tavolo con una tazza di caffè fumante e la solita aria distratta, la salutò senza alzare lo sguardo.
«Dormito bene?» chiese.
Daphne si strinse nelle spalle, mordicchiando un pezzo di pane. Ovviamente, sua zia non si era nemmeno accorta che fosse rientrata tardi. O che fosse uscita.
Come ogni mattina, uscì in giardino per controllare la cassetta della posta. Era una splendida giornata di sole, nessuna traccia di nebbia, finalmente. Il cielo era di un azzurro limpido, e i raggi del sole filtravano tra le foglie degli alberi, proiettando ombre morbide sul prato ancora umido di rugiada.
Aprì lo sportellino di metallo arrugginito, e tra un opuscolo di una poco raccomandabile setta religiosa e il volantino di una tintoria di recente apertura, scorse una busta.
Era firmata Delilah, e sull'esterno c'era scritto solo un semplice: “A presto.”

Rimase ferma per qualche istante, fissando la busta tra le mani. Rimuginò. Forse Delilah non era l'eroina incorruttibile che si era immaginata, forse la sua idea di una professionista senza macchia e senza paura era solo un’illusione. Ma ripensando alla serata, ai momenti assurdi e alle risate, si rese conto che si era divertita. Davvero tanto.
Un sorriso si stampò sul suo volto.
Si affrettò a rientrare in casa e si chiuse nella sua camera prima di aprire la busta. All’interno, c’era un bel gruzzoletto: 100 lunari.

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